Che sia un anno (scolastico) darwiniano?

Noi siamo quelli che non esistono.
Non abbiamo genitori che minaccino il pandemonio.
Non abbiamo numeri per fare la differenza.
Non siamo nemmeno un immaginario, al massimo facciamo un titolo esotico sui giornali qualche volta, o uno sberleffo nella bocca di un ministro.


Qualcuno, laggiù a Roma, quando una domanda deve essere pure uscita, ha detto che “beh, sono adulti: per loro va anche meglio”.
Meglio io, sinceramente, vorrei farglielo provare di persona. Cos’è, per un adulto che ha già lavorato otto ore, trovarsi là di fronte a un computer inchiodato. Non a fare lezione, no: a fare la guerra con la connessione che salta, con il microfono che non va, con la propria impotenza tecnologica, con le chat per cercare di uscirne, con i ti chiamo io.
Meglio lo abbiamo visto bene, l’anno scorso: che se già di tuo hai poco traffico, te lo tieni stretto per la morosa dall’altra parte del mare, e ci mancherebbe altro (lei vuoi sposarti, mica la scuola).
Meglio tipo rincorrere la lezione dal viva voce dell’insegnante (che altra maniera non c’è per farti partecipare) e perdere una parola su tre con l’orecchio in fiamme e zero possibilità di interazione.
Meglio forse è in fondo niente altro che la solita selezione naturale: resiste chi ce l’avrebbe fatta comunque – solo, con più fatica, e meno soddisfazione. E del resto di quel sessantacinque per cento di studenti perduti dai Cpia non s’è letto da nessuna parte in questi mesi.
Di cosa significa insegnare italiano livello a zero su un cellulare marcio non s’è detto in questi mesi.
Di cosa è la perdita dei livelli minimi di inclusione per chi è più fragile, per chi è più solo, per chi l’unico stato sociale che vede è quello della scuola – non s’è parlato niente, in questi mesi.

Ci dicono invece che si chiude perché i comportamenti a rischio, perché i mezzi pubblici, perché gli assembramenti, perché la fascia degli spostamenti.
Ma i miei studenti, quelli che non esistono, a scuola ci arrivano coi loro mezzi (magari averlo, un autobus dopo le sette di sera, in questa provincia); a scuola, nelle loro classi minime, ci entrano quando tutto il resto del mondo si mette le pantofole ai piedi, non quando si ingolfa per le strade; i miei studenti sono adulti e fanno più tamponi di quelli che il mio ministro ha pensato per me (li fanno nelle fabbriche, negli ospedali, nelle case di riposo, nelle aziende).
Essere in classe è spesso la loro unica dimensione di relazione “al di fuori”.

Si sono persi già una dieci trenta volte, i miei studenti: essere a scuola da grandi significa per loro che ci stanno provando, e non perdersi ancora, ma a recuperare sul passato e sul presente.
E questo vuol dire, nei loro infiniti casini esistenziali (quanti, e quanto più incasinati dopo i mesi del tempo sospeso) un sacrificio che non si comprende se non si vive – e io lo capisco, che si faccia fatica a vedere, laggiù a Roma.
Perché quella delle scuole serali è una resistenza negli interstizi della vita. Ma chiudere le aule degli adulti, ora, vuol dire giocarsi un intero segmento di istruzione pur di non costringersi a un minimo ragionamento logico.

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