Una questione di tipicità

Dovremmo anche ringraziare il 30 agosto in nome della schiettezza. Era ora che qualcuno lo dicesse per dritto, dai.
Anzi, subito un calendario: ce l’abbiamo una giornata annuale della “tipicità”? No?
Ecco.
Propongo che da ora in avanti si commemori il momento in cui – e finalmente – qualcuno ha detto in faccia alla montagna cos’è che deve essere, ora e per sempre (ché, come direbbero i Baci Perugina, nostra fonte somma di sapere e conoscenza, non si tradiscono i sogni).
Dunque: tale Fabio C., come si è, fin da subito, schiettamente firmato, il fegato, lui, ce l’ha avuto.
Che poi lo abbia fatto sotto la cappa invisibile di uno strumento come TripAdvisor, che permette a tutti di dire tutto di tutto e di tutti nel nome del buonsenso privato e a discrezione della propria responsabilità individuale, questa è un’altra storia (ah, la meravigliosa sensazione di dare fiato alle trombe: noi, dall’alto del nostro olimpico irreprensibile giudizio; noi, che possiamo finalmente vendicarci di una blatta sul comò, di un lenzuolo stropicciato, di una finestra murata – finanche di un asciugamano piegato male, di un servizio di piatti “che non ci piaceva”, dell’arredamento che “avremmo preferito diverso” e di uno sguardo troppo o troppo poco complice di un cameriere di passaggio).

Ecco, dicevo, tale Fabio Cenerini (che poi il nome, una volta che è stato individuato dal circuito, mica l’ha più nascosto, eh?) va in montagna – a Cortina, per l’esattezza.
E, fatta la sua passeggiatina vista dolomitica (sono così belle, le montagne, quando ci fanno da quinta per le nostre sacrosante quattro ore d’aria pulita), va a mangiare in un agriturismo. Anzi, ce lo portano: lui, fuggevolmente, si ricorda poi di esserci già stato.

«Va detto che all’interno di agriturismo ha poco,…» scrive.
Accidenti.
Che manchino le capre? il letame? i fiori? non ci sia stata abbastanza acqua per fare venire su i porcini negli anfratti strategici?
Poi c’è una virgola. E la frase successiva è: «… di agriturismo ha poco, ma è nella norma nelle vicinanze di Cortina».
Nella norma. Il lettore sprovveduto non sa a questo punto se confortarsi (cioè: il posto non è proprio-proprio agriturismo, però c’ha le sue sufficienti capre, il suo letame, i suoi fiori, eccetera a livello), oppure mettersela via (ovvero: intorno a Cortina non ti puoi aspettare un agriturismo che sappia da stallatico come un sano agriturismo come Dio comanda).
C’è poi un’altra virgola. E c’è un’altra frase avversativa, di quelle che cominciano per “ma” e per “però”, per capirci: e hanno il compito di mettere in dubbio, limitare il significato della frase precedente.
Scrive in TripAdvisor Fabio Cenerini, che viene da quella bella solatia Liguria dove sta a La Spezia: «…, però l’arredamento non è particolarmente tipico».

Momento. Cenerini, scusi: che arredamento vuole. Tipico di Cortina. Tipico di un agriturismo. Tipico di che. Il nostro scivola via.

Lo so: potrebbe sembrare una faccenduola di interesse minore, questa, però: un attimo di calma e andiamo avanti con la vicenda.
Fabio Cenerini, uomo che vive a La Spezia (un porto, no? si studiava, a scuola, quando si faceva il triangolo industriale…), è un politico; un consigliere comunale. E da vero gourmet ci liquida in quattro e quattr’otto il menù (niente di che, ci dice. E pure caro, per due zuppette e poc’altro).
Poi, il capogruppo di una lista Forza Italia-Fratelli d’Italia, ovvero recensore da ottantanove pareri su TripAdvisor, va dritto al punto, e il punto è dolente.
C’era una cameriera nera vestita in costume tirolese.
No, dico: a servire ai tavoli c’era una cameriera nera in costume tirolese. Vi pare?

«Non è razzismo – scriverà a posteriori, intervistato dai giornali nazionali – (…) confermo che si tratta solo di una questione di tipicità».
Tipicità.
Leggete bene questa parola. Il 30 agosto 2017 è la giornata montana della tipicità, nata dal martirio pubblico di un desco ove ai commensali è stato servito il fastidio del binomio ragazza di colore+costume tirolese.

Chi è, lei? Subito i giornali non approfondiscono più di tanto: una della Guinea Bissau, che vive a Verona. Una che sta in Veneto da tanti anni. Una.
E se fosse, tipo, una studentessa che lavora stagionalmente per mantenersi gli studi? O se fosse, tipo, una brava cameriera che lavora e basta?
Una giovane donna a cui piacciono le montagne?
Una che coltiva l’idea di diventare chef e vuole imparare dall’inizio?
Una che pensava di non avere alcuna attitudine e ha capito che può funzionare?
Una che è stata adottata? Che è in rotta con la famiglia? Che ha deciso di provare? Che?

Io penso alle mie, di ragazze, a scuola: quelle che vengono da un altro Stato hanno un bel daffare.
Non hanno solo da crescere, come tutti; da diventare grandi, da confrontarsi con tutto quello con cui c’è da scontrarsi alla loro età (la famiglia, la scuola, i pari, i desideri, il proprio corpo, per dirne qualcuna). La loro battaglia (eroica, e consumata a colpi di lacrime e kohl, spesso in silenzio) la devono fare con due culture, due mondi, due idee di famiglia, due religioni.
E, quindi, sulla loro pelle, e a mani nude, devono tenere testa a due sistemi di pregiudizi diversi e ben strutturati.

Sono le ragazze, prima ancora che i ragazzi, il luogo mentale di un possibile incontro, di un cambiamento, di una trasformazione, di un andare avanti insieme. Dovremmo, dobbiamo (noi: scuola, insegnanti, adulti, donne, cittadini, società, esseri pensanti) essere il meglio di noi stessi sempre.

Capita, di sbagliare. A tutti: grandi e bambini.
Mia nonna (dopo uno scappellotto di quelli che piacerebbero tanto a Crepet), quando sbagliavo con le parole, mi diceva : «Taci».
Poi mi stringeva forte sul braccio, che in linguaggio non-verbale significava “adesso pensaci su e, possibilmente, vergognati”, dopodiché intimava:
«Chiedi scusa».
La differenza tra un bambino e un adulto dovrebbe stare nella comprensione dei propri errori, anche senza ausilio di nonna.

Ora. Un politico, che mestiere fa? Fa il bene della comunità. Questo dicono il diritto, la filosofia greca, la sociologia – la politica stessa. Lo dicono, con qualche variante, da circa 2.500 anni – e se lo dicono, non parlano a vanvera. Per questo ai politici dobbiamo chiedere di essere per lo meno il meglio di noi, e possibilmente meglio di noi: perché noi siamo la società; e la società, quando si esprime, lo dovrebbe fare nelle migliori delle sue manifestazioni.
Fabio Cenerini non deve avere avuto una nonna come la mia. E poi, prendere atto di avere sbagliato deve essergli parso mortale segno di debolezza.
Così, al posto di tacere, rilancia: «Generalmente, quando si va in Alto Adige o in Trentino o a Cortina ci si aspetta una donna “modello Heidi”».

Come, prego?
La perla delle Dolomiti viene tirata per la giacchetta e rimbalza sui giornali di qui e di là, ma non ho sentito nessuno, qui, stavolta, che si stia accapigliando per sottolineare che “Cortina sta in provincia di Belluno”.
Neanche da Venezia, mi pare, si muove foglia: stanno – quelli che a ogni elezione mettono al primo posto il Teritorio (detto a strascico, con la t maiuscola e una erre sola), quelli del ladino a tutti i costi, quelli dei corsi di veneto – tutti al Lido, a vedere il cinema: che gli frega se il loro collega parla di Cortina come di organismo a sé non facente parte della regione che loro stessi rappresentano? Sottigliezze, dai.
E poi, la montagna è montagna, avanti.

Qui da noi, tutte quante si sentono un po’ Heidi. O no? Tutte quante abbiamo le guanciotte, corriamo scalze per i prati, beviamo il latte dalle tette delle mucche e gioiosamente, quando cresciamo, aspettiamo i nostri uomini dentro i covoni vestite solo di una pettorina di cuoio. Non è così?
No, dico: non. è. così?

Perché se non è così, allora forse qualcosa ancora si può fare: tipo alzare una mano, alzare un pensiero.
E scrollarsi di dosso quella fastidiosa sensazione che tutta questa vicenda si porta dietro.
Il politico d’acqua (ma anche il politico di pianura, o di collina), quando si pronuncia sulla montagna, lo fa da uomo di città, da turista, da cliente.
Si aspetta una montagna che sia “tipica”; non che sia, che esista.
E se il mondo, nel frattempo, è già andato avanti rispetto allo stereotipo, produce un fastidio incommensurabile: una montagna “diversa”, “complessa”, fa strano tanto quanto una ragazza di colore vestita in abito ampezzano. Dunque: si tipicizzi, si normalizzi, per diana!

E’ per questo, caro il mio Fabio Cenerini, che mi tocca pure di ringraziarla per avermi inventato la giornata montana della tipicità: qui da queste parti si tenta anche di fare qualche discorso più complicato, per fare capire al resto del mondo che la situazione è agra, ma poi ci si perde via sulle resilienze e sulle spe-ci-fi-ci-tà (robe che già i suoni della nostra lingua dovrebbero farci capire che non stiamo andando verso concetti comunicabili, né empatici. E allora ci si ingroppa meglio di un nodo da cordata).
Siamo pochi, a resistere, su per di qua. Siamo, anzi, sempre meno – e più vecchi.
Il fatto è che vivere quassù non è solo stare nella periferia delle periferie, con le frane, il freddo, i treni che si fermano per le frane e viaggiano (quando viaggiano) nel freddo.
Il fatto è che la montagna sta diventando un pensiero periferico di questo paese e di questa regione. L’equivalente di una vecchia conoscenza italiana. Una colonia.
E che si vuole, da una colonia? Che dia le bestie per le nostre battute di caccia. Che dia le braccia per fare il formaggio buono quando ci andiamo due settimane d’estate che in città dio che caldo (e d’inverno, le malghe le stalle i pastori? Mu!). Che ci faccia da epica scenografia per le nostre ciaspolate fiaccolate slittate sciate arrampicate pellate (orrore) scarpinate.
Che stia lì – ti-pi-ca, appunto – fino a quando avremo voglia e tempo di ritornarci, pronti a farci la nostra brava recensione su TripAdvisor.

Non si rivendica alla montagna l’esistere in montagna: l’uomo alpino ha da riempire una casella. E la casella è sempre quella del selvaggio, rude, poco profumato (la verità, signori, sull’ascella…), basico nei ragionamenti, solitario, spigoloso.
E’ l’uomo di Mauro Corona – benedetto, Mauro: ti ho tanto voluto bene ne “Il volo della martora”, ma adesso che ti ritrovi a fare l’om selvarech, marionetta da palcoscenico, guru degli apicchi, tutto aforismi tagliati con l’accetta come un Coelho moralizzatore, come la mettiamo con il coraggio, la sfida, il superamento, la resistenza? Dov’è finita quella civile rivoluzione della dignità che rivendicavi ai tuoi personaggi?.
L’uomo montano arrampica o fa lunghe camminate senza riuscire a comunicare che poco con il suo simile maschio, come nel libro di Cognetti. Le donne montane fanno le madri e tacciono, come nel libro di Cognetti. E la società di mezza costa si svende al prossimo imbastardendosi a suon di bar e localini, povera allocca – come nel libro di Cognetti.

Se è questo, l’immaginario sulla montagna, è ovvio che poi gli animali vanno bene, ma che non siano troppo animali, tipo lupi e orsi, per intenderci, e passa il piano venatorio di abbattimento (che sta alla fauna locale come le pecore infiocchettate e profumate della campagna sintetica di Maria Antonietta); è ovvio che delle scuole superiori e delle Università che se ne faranno mai, questi montanari, se poi andranno tutti tipicamente ad arrampicare, o al massimo, finché dura, a fare gli operai degli occhiali; è ovvio che, se sono pochi, ci diventano un costo (e via la posta, via la banca, via l’asilo, via gli ospedali, via il bancomat… il Provveditorato dobbiamo proprio tenerlo?); è ovvio che se proprio non possiamo togliergli tutte le scuole, gli andrà bene una pluriclasse, no? – tanto, poi, per diventare operai degli occhiali e alpinisti, che gli serve di più di leggere e scrivere.

Insomma.
L’importante è essere tipici.
Un tipico standard. Normale. Rassicurante. Atteso. Il serraglio montano con tutti i suoi crismi: le corde, gli scarponi, la fatica, il panino col salame. Punto. Altro che ragazzine colorate in veste tirolese.

Quanto ai proprietari del ristorante, ci dice “Repubblica”, sono rimasti “perplessi”.
Bravi. Io mi sarei arrabbiata come una iena.
Comunque, hanno chiesto al sito di togliere il commento, e TripAdvisor ci mette la sua: prima dice che non c’è nulla di strano né offensivo; dopo (dopo) lo rimuove. Come dire: peggio il taccone del buco.
Al ristorante, con compostezza, hanno una bella reazione di civiltà: «Per noi conta la professionalità e la bravura, non il colore della pelle».

E qui il nostro Cenerini dà il meglio, bisogna dirlo: riesce a sostenere che «E’ stato tutto travisato e forse quelli del ristorante hanno utilizzato il polverone di polemiche per farsi pubblicità».
Ora. Questo potevamo risparmiarcelo, no? Cenerini, parliamoci tra noi: carta canta.
Se si prende la briga di scrivere, deve essersi preso prima la briga di pensare.
Il pensiero l’ha formulato lei: che è un politico (ricorda?), e lasciamo perdere la pochezza della sua idea di montagna (peraltro: lo sa che Heidi era una lettura caldeggiata ai tempi del Reich? Io l’ho scoperto grazie a lei…); però, via: questa gente che sta quassù, che si smazza a tenere vivo un luogo, a dargli vita, a metterci energia, amore, lavoro, che non cede alla bofrost della grande ristorazione, che viene attaccata (perché è un attacco, sa?, quello che lei ha fatto. Un atto scritto di cui è responsabile, deve rendersi responsabile, è necessario se ne renda conto: perché è un politico).

Questa gente che chiede dignità per il lavoro e per le persone che lavorano, e lo fa mitemente, civilmente: ecco, Cenerini, le pare il caso di buttarci pure sopra una vangata di letame – dopo il danno che ha già causato? I commenti pubblici si leggono, se non ne è a conoscenza; vengono condivisi; costituiscono punteggio. Fanno il merito di un locale (e sarebbe ora di ragionarci, sull’altare di questo idolo) e il suo credito.

Due volant su un grembiule e una camicia con una stella alpina. Questo, è, quello che per lei è il costume tirolese. La montagna. La tipicità.
Sa che cosa le dico?
Tipico un cazzo.

 

 

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