Burnout? Avete provato con le brioches?

Non è servito a niente.
Quello che capisco, oggi, è che non è servito a niente.
A niente, a niente, a niente.
A niente.


Non è servito – nell’evidente inadeguatezza dei mezzi e dei metodi – inventarsi un modo per tenere in vita una scuola che fosse anche se lontana ancora un poco umana.
Non è servito, in nome dell’emergenza, soccombere alla frantumazione di ogni barriera tra tempo del lavoro e tempo della vita.
Non è servito vietarsi di essere fragili, perché c’era da sostenere chi, là fuori, maneggiava la disperazione e aspettava la sera (solo la sera) per non pensare all’orrore, dentro il tempo della lezione. Non è servito vivere ininterrottamente un unico lungo giorno, senza sabati, senza santi né domeniche, dal 2 di marzo ad oggi. E nemmeno non avere estate, perché da remoto (ah, la comodità!), uno zoom è chiaro che può raggiungerti ovunque, come ovunque (e sempre) possono scovarti le ansie a forma di whapp dei tuoi corsisti, che vanno e vengono a stormi – senza pace e senza lasciare pace.
Non è servito morire di rabbia in settembre, quando è stato evidente che – al di là dei banchi a rotelle, mentre delle rotelle vere, quelle che a scuola portano gli studenti, nessun giornale parlava (e i ministri: zitti) – il più efficace dispositivo di sicurezza a nostra disposizione sarebbe comunque stato un cero a santa Rita.
Non è servito l’orario fatto disfatto rifatto, i miracoli degli organici coi buchi meglio dell’hemmentahl, la questua degli spazi (mentre il numero di allievi per classe, quello, guai toccarlo), le occhiaie di quelli che in presidenza vivono ormai davanti al computer, quello che non dorme mai – pronto a sputare l’ennesimo decreto annullante tutti i precedenti.
Non è servito lasciarci un pezzo di vista.
Non è servito neppure riempirsi le mani di tagliole.
Non è servito avere contezza che il tuo ruolo si stava perdendo, il tuo mestiere si stava perdendo – e tu, ti dicevi, undici anni in carcere li hai già fatti.
E quando hai sentito di non farcela più, sei andata.
Perché per lo Stato vuoi essere una professionista. Se avessi voluto essere un eroe, ti saresti arruolata in qualche legione straniera.
Non è servito però, a conti fatti, neanche accettare il rischio. Non in nome di un monumento, ma per responsabilità civile. Perché: sì, da quello che hai visto, di come ci ha lasciati, questo tempo sospeso, hai toccato con mano (la fila delle facce e delle storie, sulla panchina del tuo non-ufficio) quanto si è perso. Non è servito capire la necessaria forza del ridimensionamento, della negoziazione, dell’esercizio condiviso dei limiti – e che lo stare insieme nella scuola significa anche razionalizzare; e che la ragione, solo quella, è forza vitale contro le paure sociali, sulla quale innestare ogni possibile reciproca comprensione.
Non è servito vedersi a pezzi, e chiedersi com’è che nessuno ne parla, del burnout degli insegnanti postcovid (che sanno solo correre, questi insegnanti; non ci ascoltano, questi insegnanti; tirano dritto e basta, gli insegnanti; gli interessa solo l’aoristo passivo di ìstemi, agli insegnanti; e poi, diciamocelo: per mesi non hanno fatto un cazzo, gli insegnanti).
Non è servito domandarsi perché, a fronte di un evidente trauma collettivo mai vissuto prima, un Ministro rispondesse con la parola valutazione, e non con strumenti e luoghi di elaborazione (perché, poi, se non elabori rimuovi. E se rimuovi cancelli. E se cancelli vuoi recuperare tutto il tempo che ti sei perso. Non lo dice solo il caro Sigmund: bastano dieci righe di Giovanni Boccaccio – che pure il caro Sigmund non lo conosceva).
Non è servito centoventotto messaggi tra domenica e lunedì, né il primo tampone, né il secondo, calcolare in affanno quando l’ultimo caffè con tua madre – e tuo padre, poi… Non è servito addormentarsi pensando che potresti mettere in pericolo chi ami e si addormenta al tuo fianco.Non è servito. Niente di tutto questo è servito.
Perché la scuola, per questo paese, è semplicemente sacrificabile, rinunciabile.
E con lei gli insegnanti.

Oggi sono una fila di lapidi, cui è stato negato – perfino – il conforto degli alberi.

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