Quello che la scuola “ha perso”. Davvero.

Ma allora diciamolo, cos’è che “abbiamo perso”, in questi mesi di scuola.

Diciamo degli scleri improvvisi che trasformano le chat di classe in campi di battaglia.
Diciamo delle follie sotterranee.
Diciamo dell’irrazionalità esplosa, delle negazioni.
De “La mascherina no perché non serve” e de “a scuola non ci vengo perché ci infettiamo tutti”.
Diciamo delle scritture che non si leggono più.Diciamo del sospetto. Reciproco.
Diciamo dei nervi.
Diciamo delle crisi di: ansia, angoscia, panico, fiato.
Diciamo dell’insonnia.
Diciamo dell’incapacità di concentrarsi.
Diciamo del non sapere più cos’è sorridere insieme.
Diciamo della completa mancanza di avventura.
Diciamo della frantumazione dell’emancipazione.
Diciamo della scomparsa del gusto del fare le cose, della totale latitanza della soddisfazione.
Diciamo della rabbia (quanta, e che dura).
Diciamo della fatica che mette i piombi alle caviglie della motivazione.
Diciamo dell’insofferenza subdola, che toglie senso a qualsiasi cosa.
Diciamo del vuoto degli occhi. O del cinismo.
Diciamo della perdita della meraviglia.
Diciamo del non essere più in grado di distinguere tra tempo pubblico e tempo privato.
Diciamo dell’assenza di complicità, o di una complicità feroce.
Diciamo del non riuscire a concludere le cose.

Poi direi, anche, del numero di psicologi psichiatri assistenti sociali che abbiamo sentito in questi mesi. Via messaggio, per telefono, di persona, su zoom, con skype. (E per chi dice: mica è compito degli insegnanti, la risposta è: certo che no, per contratto. Ma per contratto non ci sono scritte un milione di cose che fanno il mestiere dell’insegnante. E che però gli insegnanti – la scuola – fanno).
Allora.
Più grave non sapere l’aoristo passivo del verbo tìthemi.
O un futuro (che comincia ad essere un presente) da mondo sociopatico?

(nell’immagine: ritratto dell’insegnante di lettere serale all’esordio di Dungeons&Dragons).

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