L’ultimo cucchiaio della marmellata che mi hai regalato.
Faccio colazione pensando a quando arriverà – perché: arriverà. Allora mangio il pane quasi con foga, tra impaurimento e stanchezza.
È strano come l’ultima impronta tangibile del nostro rapporto diretto sia il gusto di una frutta casalinga dentro un vasetto di recupero.
Per un addio, si pensa sempre a qualcosa di solenne – invece credo che, per la lezione di quest’anno, che ci ha così forte cambiati, questo vetro povero e di riuso sia in fondo coerente.
Ciò che è vivo. Ciò che non lo è. Ciò che lo era. Ciò che non lo sarà più.
Tutto sta limitrofo e promiscuo.
Le dò una cosa, se le piace, prof.
L’inverno sarebbe stato lungo. La tensione sempre a un passo dalle ciglia. L’incertezza una lama appena dietro le cervicali.
Eppure ce l’avevamo quasi fatta, una settimana dopo l’altra. Un giorno, e poi ancora un altro, e un altro. Grattare normalità dalle fotocopie, dalla sbarra che si alza sotto la neve, dal buonasera buonasera buonasera – e poi buonanotte buonanotte buonanotte.
Natale la fatica di tutti noi sfigurati, un vasetto di marmellata, una sorpresa brutta, dentro un corpo solido.
Ora non so più che fare dei nostri messaggi sul telefono, di quella fiducia, di quella speranza manifesta.
La primavera.
Sto reagendo.
Benino, prof.
A presto, a presto.
Mi resta attaccata la memoria di quell’abbraccio di una sera dentro i divieti, delle parole nel chiuso dell’atrio dietro il vetro, del nodo in gola a cominciare lezione, dopo.
E un vasetto di marmellata: il gesto semplice, la gentilezza schiva.
Un congedo che non sapeva di esserlo.