Com’ero io, il pomeriggio prima della Maturità?
Vulnerabile, come tutti.
A ripassare con un’ansia solida, in un tempo solido, materie che andavano inchiodate nella memoria (se poi non mi viene niente? se mi dimentico tutto?) prima che se ne scappassero via. E allora bisognava mettere paletti, crocifiggerle dentro la testa in formule, epigrammi, distillati.
(Montale: oscuro simbolismo analogia cocci aguzzi di bottiglia muro mare. Varco)
Io stavo seduta dietro la porta a vetri della Biblioteca Civica. C’era sempre il quadro angosciante di Masi Simonetti (che non aiutava). C’era la sensazione di una certa – pura – solitudine (troppo simbolismo, troppe ellissi, troppo ascolto di “La morte e la fanciulla”).
Il mio, di varco, era quel vetro. Lo stesso a cui penso, oggi.
Come saranno i miei studenti, ora, il pomeriggio prima della Maturità?
Vulnerabili, come tutti.
Con le loro storie complicate, le loro lotte tutte diverse, con la voce, i tic, gli occhi che ho visto davanti a me uno tre quattro cinque anni, la sera – le sere.
Ragazze diventate donne, donne diventate mamme, giovani uomini in gincana col destino, fragilità, ansie, punk dal cuore tenero, allieve di lingue antiche, mani che hanno affrontato la loro vita di ferro per piegarla verso un futuro umano: tutto un coraggio, costruito di minuto in minuto, di sera in sera. Essere lì. Continuare a essere: lì. Lo vedranno, i miei studenti, il varco?
Quello che io vorrei, per ognuno, è che domani fosse davvero il giorno in cui ciascuno potesse dare prova del proprio “capo-lavoro”: la fine e l’inizio. Il compimento e l’apertura.
Certo, lo abbiamo fatto, in questi mesi, il gioco del veggente, perché la paura è sacra e va rispettata: cosa può uscire, prof?
A me piacerebbe. E se fosse. Potrebbe essere.
Un tema sulla tolleranza; io Pirandello; ma Svevo, prof; Montale no, ti prego, eh? il voto alle donne, dai; e perché non Barbie curvy?
Che guardassero i testi, che non si fermassero ai nomi degli autori; che ascoltassero le parole, in profondo; che sentissero i loro pensieri muoversi senza paura all’interno di quelle frasi, delle righe, del tempo che scorre.
Il “capolavoro” è questo: non interpretare, ma essere.
Quella è la prova.
Quello è il varco.
Sarà un buon esame.