Corazon quebrado: Elvira Lindo, “A cuore aperto”

Dice Elvira Lindo che non ha mai avuto dubbi sulla letterarietà della vita e della personalità di suo padre: quasi l’eccesso, l’intemperanza, la necessità (caratteristiche di tutte le sue scelte) avessero fatto saltare il troppopieno dell’esistenza per renderlo sin da bambino personaggio del proprio presente.

Tirannico, ridicolo, ironico di un’ironia capace di ferocia e di salvezza, onesto al midollo, affettivamente scompensato, generoso, disobbediente, sradicato, irriducibile.

È così che lo incontriamo nelle pagine di A cuore aperto, pubblicato da Guanda e uscito nelle librerie la scorsa settimana: romanzo, memoir, storia di formazione, affresco sociale, racconto d’amore e di affetti, cronaca famigliare e insieme testimonianza di una Spagna quotidiana nelle sue geografie più disparate, dalla grande città all’isola benestante, dal paese di montagna al fervore politico dell’Università.

Non volevo fare un esercizio nostalgico, non sono incline alla nostalgia, e nemmeno scrivere una specie di biografia, o un romanzo puramente sentimentale. Volevo che la scrittura fosse la continuazione naturale di un esercizio a cui mi ero dedicata fin da piccola: quello di osservare, osservare mio padre, cercare di capire un temperamento instabile, imprevedibile, che andava dalla tenerezza alla furia senza lasciarti il tempo di reagire.

È la scomparsa del padre, la necessità del trovare un “dopo” agli oggetti dell’esistenza, la volontà di interrogare il passato a muovere la scrittura di A cuore aperto: con una disposizione non cronologica, ma secondo una cronologia del ricordo, le fotografie dell’album fotografico della vita di famiglia vengono  stese su un tavolo e ricombinate più volte e da lì iniziano a parlare.

Elvira racconta, ed è bambina e ragazza, giovane donna combattuta e figlia in cerca di risposte.

L’infanzia del padre, spedito a vivere lontano da una famiglia che lo ritiene rinunciabile; la vita agra e il deserto affettivo di una nonna che si coltiva la nemesi in casa; la madre delicata e sola; il breve e dorato periodo nella scuola a Palma di Maiorca, l’adolescenza spaventata; il matrimonio dei genitori; la lettera d’addio del padre: la linea della vita sulla quale si intrecciano passioni, aspirazioni, incomprensioni è una partitura ricchissima e tesa, di analisi profonda.

Ci sono traumi che invece di sgorgare da un’esperienza violenta cuociono a fuoco lento fino a forgiare il nostro carattere. Se eliminassi il mio trauma sparirebbero anche gli anni dell’infanzia?

Per rispondersi occorre ripercorrere il perimetro affettivo costruito dal padre, ritrovarlo giovane povero in canna armato di ambizione onestà e volontà di riscatto, vederlo scommettere sul proprio benessere al prezzo di sradicarsi, entrare con lui nell’infinita serie di bar e taverne in cui concedersi il lusso di una confidenza data solo a sconosciuti di passaggio, immaginarlo bambino affidato a una nonna tirannica, arida e spaventosa, ascoltarlo (perfino) innamorarsi (All’epoca si amavano. Con l’amore pericoloso dei diseguali. Lei lo amava più della propria vita, più di quanto amasse noi. Sopportava il suo delirio e le sue scelte discutibili), capire l’incapacità, l’assenza di strumenti affettivi, la frustrazione, lo sforzo, l’inadeguatezza.

Papà era strozzato dalla paura. Non sospettava neppure quanta fatica gli costasse mantenere la sua fama di uomo coraggioso. A volte soffocava i suoi timori coi ceffoni. Scatenava l’ira per sfogare una paura antica di cui ignoravamo l’origine

Se guardare a tutto il passato è un modo per farci i conti, ma anche di comprendere ciò che si è alla luce di ciò che si è stati, dentro A cuore aperto non c’è resa, ma una sorta di ritorno a sé: c’è la capacità di rivivere situazioni intime e universali, di ri-pensare pensieri bambini, tirarli fuori dalla dimenticanza della vita adulta per mostrarli in tutta la loro tenerezza, ricompilare la mappa degli affetti e delle gelosie domestiche.

L’atmosfera di casa mia dipendeva dalle liti e dalle riconciliazioni dei miei. Era faticosissimo adattarsi: dopo un periodo di silenzio e di scontri profondo, d’un tratto la notte li sentivi chiacchierare animatamente nella loro stanza. Io allora li odiavo per avermi coinvolto in una guerra in cui la pace si firmava indipendentemente da me.

Si leggono, questi movimenti sulla pagina. Si rivivono. Li si guarda lontani. Si tira perfino un sospiro di sollievo a vederli passati; senonché, appena ci si rende conto della loro distanza, non si può non considerare lo struggimento che provoca il loro smarrimento. 

Poiché A cuore aperto è, in effetti, anche (e moltissimo) un libro sull’infanzia: sul dolore del viverla, in primis; e, poi, sul perderla. Leggendolo non si può non riflettere su come, in infinite varianti, in ogni età sempre sopravviva un frammento di infanzia pronto a rimanere indietro, a scollarsi, a cancellarsi.
Elvira Lindo prende il sentiero dei ricordi perduti, e li raccoglie di piccolo dolore in grande gioia, di fratture in occasioni, di abbandoni in confidenze.

Così, infine, l’infanzia (e la vita intera) vengono riconquistate attraverso uno slittamento ineluttabile che di pagina in pagina si allarga.
E la voce che racconta, l’iniziale figlia altrui, finisce per divenire genitore di sé – anche nella consapevolezza dell’incolmabile silenzio materno.

(…) ma cos’era la morte io l’ho capito solo molti anni dopo, e continuo tuttora a scoprire l’impronta lenta e strana che lascia dietro di sé. A ogni età questa ferita in qualche nodo si riapre, e adesso penso spesso a tutte le domande che non ho fatto, ai rimproveri che avrei dovuto muovere, alle spiegazioni che avrebbero calmato la mia ansia, all’infinita traiettoria dei rimorsi che ho provato per aver smesso di essere la bambina che si prendeva cura di lei, e un tempo aveva anche creduto di avere il potere di guarirla.

Questo articolo è apparso su Cultweek, qui

Una mia intervista a Elvira Lindo su Scrittori a domicilio (con la traduzione di Rossana Ottolini, una tempesta elettrica, e vari colpi di scena) è qui

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