Addio scuola.

In terza elementare, per la prima volta, ho imparato cosa vuol dire la differenza. La maestra, appena cambiata, faceva parte di una vecchia guardia che al tempo sembrava in via d’estinzione: donne sempre molto anellate, sempre molto abbronzate, profumate e laccate, sempre e solo completini sartoriali acquistati nelle due boutique del centro storico, De Castello e Tonegutti.
Una tipologia facilmente riscontrabile nelle piccole province, dove il microcosmo amplifica sempre il peso del ruolo.

La maestra sapeva bene chi era figlio di chi, e chi no. Mica che servissero i megafoni. Era da sottili distinzioni (il posto del banco, una frase chiusa più e meno bruscamente, chi chiamare a leggere a voce alta, di chi elogiare il tema… ) che apprendemmo, a nostre spese e all’inizio a nostra insaputa, che esisteva una differenza tra la figlia del capo dei vigili e la figlia di una donna delle pulizie. Ovvero: noi, di quella differenza, non ci eravamo mai accorti.
In prima, figuriamoci: la maestra era una vicemamma amatissima, che a un certo punto si era ammalata e ci aveva fatto sospirare il suo ritorno; in seconda, avevamo avuto un outsider: un maestro (maschio, quindi già una rarità) che amava gli esperimenti, e per primo ci fece assaggiare di tasca propria cose al tempo esoticissime (mandarini cinesi, carrube, melograni e, persino, dei lychies).
Ma in terza, ecco, quella maestra che ci saremmo tenuti per tre anni ci inoculò per prima un principio che si incardinò per bene nella nostra mente: non. siamo. tutti. uguali.

Mia nonna acquistava, come lei, da De Castello e Tonegutti. Tanto bastò per garantirmi un certo suo disinteresse: stavo in un limbo, protetta dall’acquisto di una serie di vetusti completini Chanel. Né interessante. Né non interessante.
Come si difende, un bambino, in una situazione come questa? Imparando a sgusciare, diventando risparmioso in amore, mettendo spazio con una diffidenza travestita da riserbo.
E per questo quella maestra, che si faceva chiamare col doppio cognome, è stata infine utile.

L’ho ringraziata molto, nella mia testa, nel corso di tutti questi anni.
L’ho ringraziata alle superiori, perché, in fondo, le elementari erano state un trailer del Liceo classico.
L’ho ringraziata all’Università, dove la voce “studenti lavoratori”, a Lettere Classiche, era una categoria reietta e fastidiosa (“Se vuole superare questo esame, signorina, deve studiare e basta. Altrimenti, cambi mestiere…”; segue libretto gettato sulla scrivania con smorfia di disgusto: anche da qui, ho imparato molto. Della differenza tra storici e filologi. Del senso dell’humanitas nelle lingue classiche. Di chi insegna tramite terrore e di chi tramite amore).
L’ho ringraziata, quella maestra, perché mi ha insegnato bene che, io, avrei sempre combattuto contro quell’idea lì di scuola.
Perché nessuno si sentisse pieno di vergogna, così come mi ero sentita piena di vergogna io, davanti alla mia compagna lacrimosa del Comelico: una di quelle bambine che sono subito enormi e lente, che dormono nello studentato, già in viaggio per le vallate a dodici anni, che iniziano tardi e finiranno dopo, e molte volte le vedrai fermarsi. Senza ribellione, come le mucche portate all’altare delle dee antiche: votate a perdere. O a perdersi. O a ribellarsi, sempre troppo tardi.

Non è solo che la scuola forma la società di domani. E’ che la scuola è anche figlia della società di oggi.
Quest’anno, tra una storia e l’altra, faccio vent’anni di insegnamento.
E per la prima volta sono stufa come una pietra.
Tutte le volte che il mio mestiere è stato sfregiato, spregiato, ridotto, dimenticato, trattato dalla politica come un ingombro, o un fastidio, o una coperta vecchia, ho sempre avuto dalla mia la possibilità di arrabbiarmi.
Ma anche il furore che ho provato davanti a certi ragionamenti, certe vigliaccherie, non ha mai scalfito la fiducia di quella che è la mia vocazione.

Io credo in una scuola di uguali.

Non che ci siano i più bravi e i meno bravi, le eccellenze e gli sfigati, i primeggianti e i perennemente ultimi, i vincenti (che a questa parola mi viene subito l’orticaria) e i rottami.
Credo che sia politicamente imprescindibile lavorare perché tutti abbiano il medesimo accesso alle cose che fanno di noi una società di umani: la felicità, la bellezza, il diritto, il rispetto, l’onestà, la speranza, la memoria.
Credo che una scuola professionale debba poter andare a visitare il Partenone senza che nessuno se ne debba stupire (e che nessuno, né un collega né un preside né un conoscente, dovrebbe permettersi di dirti: “Li porti in Grecia? e a fare che?”).
Credo che tutti, a prescindere dall’indirizzo, possano commuoversi ed emozionarsi davanti a una poesia, e che a tutti vada chiesto lo sforzo di imparare a interpretarla (che è, poi, come imparare a chiedersi di ascoltarsi, e capire ciò che si sta passando nella propria interiorità: cosa che non è per nulla facile, né inutile, né automatica. Vedi alla voce: violenza).
Credo che non siamo un numero, e che la prestazione non sia che un passaggio, necessario, di verifica: ma che quello che conta veramente sia il percorso. Qualcuno parte da più distante, e la strada conta quanto il numero che si raggiunge.
Credo che il lavoro della scuola, quello a cui deve tendere, quello per cui esiste, sia quello di trasformare tutti in primi, che non ci si riuscirà alla stessa maniera con tutti, ma che è un dovere – morale, e civile – quello di sbattersi per provarci.
Credo in una parola che, da un tre/quattro anni, sembra scomparsa (puff, come per magia: cancellata dimenticata), mentre invece è stata la spinta fondamentale per costruire il lavoro che tanti hanno fatto.

Io credo nell’I N C L U S I O N E.

Inclusione vuol dire che non si può pensare a una scuola che divida già nella sua struttura figherrimi da poregrami, perché questo significa lavorare per creare una società divisa in figherrimi e poregrami: e non solo tra studente e studente, ma tra insegnante e insegnante, tra dirigente e dirigente, tra scuola e scuola, quartiere e quartiere, e così via, fino a risalire all’indietro la storia di sessant’anni.
Inclusione vuol dire che le misure si prendono da chi può meno, non da chi può di più.
Inclusione vuol dire che il lavoro va fatto sulla sostanza, sui contenuti, e non solo sulla forma e sui mezzi (che alla parola registro elettronico pare di essere davanti a un totem: moderno, quindi buono. E chiusa qualsiasi discussione. Mentre far percepire la differenza tra lavorare in un posto accogliente e uno no, per esempio, non fa moderno, quindi buono).

Ecco.

Per questi motivi quest’anno sono stufa come una pietra.
Perché a me, questa scuola qui che viene avanti – dove la parola progetto va sempre a braccetto con la parola fondi; la parola risultato fa il paio con visibilità; dove le competenze sono il nuovo mantra (e basterebbe la grammatica a spiegare che, per saper fare, prima bisogna sapere); dove la nuova musa è l’alternanza scuola-lavoro (perché bisogna correre verso gli schei: il tempo è schei, gli schei bisogna farli prima, tutto è finalizzato agli schei) – fa ribrezzo. Di più: mi deprime, mi fa tristezza. E mi viene da vomitare: sì, proprio da vomitare.
Perché è l’idea di una società che non mi piace proprio.
Perché è pensare che avesse ragione quella maestra, che non mi piace proprio.
E al pensiero unico non ho mai saputo rassegnarmi.

500-geni

 

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