Breve storia de El tipo. (Con morale triste).

Nel 199* arrivò sull’acropoli di montagna uno spettacolo di tango – il primo del genere ad arrischiarsi a risalire su per il passo Fadalto. La compagnia era stata invitata in cartellone dal Circolo Culturale, la più prestigiosa e antica istituzione musicale del paesello.
C’erano i musicisti, c’erano le coppie, c’erano le luci i costumi le coreografie. C’era, insomma, una storia. 
Nessuno aveva mai visto una cosa del genere in provincia, prima: un’ora e un quarto di tempi rubati, accenti spostati come un sospiro, strappate, pause, archetti mantici tastiere e un suono sporco e drammatico, umanissimo. 
E poi c’era il ballo.


No retorico. No scosciato. No machista. No scattoso. No cliché. No macchietta. No rosa-in-bocca-calza-a-rete. No casqué. No signorine-adoranti-livello-patta-dei-pantaloni-del-cavaliere (che struscica: del resto, che altro avrebbe da fare?). 
Insomma: niente di quel vecchiume passatista facile alle pubblicità televisive, di sfondo (ma neanche poi tanto di sfondo) sessista, della tipologia “l’uomo comanda”.

Quello che quel palco restituiva – ed erano un poco più di vent’anni fa – era qualcosa di estremamente poetico: un ballo fatto di complicità e tenerezza, di muscoli e dialogo corporeo, di eleganza in accenti forti e deboli, capace di lentezza, di furia, di gioco. Complesso, ed evoluto. Pieno di congiuntivi e di condizionali passati e trapassati. Gentile. Un tango cinquanta e cinquanta. 
Rivoluzionario. 
All’ultimo chan…chan! dell’orchestra venne giù il teatro: quei quattrocento, o giù di lì, presenti in sala si ripresero il respiro tutti insieme, e tornarono dall’apnea in cui quella musa contraddittoria li aveva tenuti in ostaggio.
Da un tot di anni lavoravo nel giornale locale, quando ancora esisteva la pagina della cultura. 
Ricordo che non dormii, e mi misi a lavorare subito, quella sera. Ne scrissi bene. Molto bene.

Una settimana dopo, mi arrivò in redazione una busta: il mio nome e cognome era scritto in stampatello.
Sul fronte, circa venticinque francobolli da venti lire l’uno, appiccicati uno vicino all’altro, formavano la quota necessaria a una spedizione cittadina. I timbri (dieci?) erano stati affissi a cavallo – con corollario di smadonnamenti dell’ufficio preposto, mi immagino. 
Che qualcuno mi scrivesse era già singolare; che imbustasse in quel modo, una bizzarria. Lo sganassone vero però aspettava rannicchiato dentro, liberato appena lacerati i lembi: un foglio, in velina, copia di carta carbone, battuto a macchina fittamente. 
In sostanza, l’estensore si dichiarava detentore di un passato da ballerino di navi; diceva di essere stato a Buenos Aires; diceva di essere indignato (indignato…) per quello che aveva visto sul palcoscenico del Comunale; diceva di essere doppiamente indignato dalle parole che avevo scritto e del fatto che mi fossero state impunemente pubblicate. 
Perché – diceva – quello spettacolo “non corrispondeva” per nulla a quello “che lui conosceva”. 
Dopodiché (asserendo la propria umiltà – che lui, di passi, ne sapeva muovere poi pochi, e che in fondo pochi ne bastano per un tango) si lanciava in un pistolotto su San Telmo i gauchos le donne che seguono il VERO tango. Eccetera eccetera eccetera.

Sono cose che ti fanno rimanere, eh, queste.
Pensare che un tipo si prenda tanta briga e tanto tempo per una recensione (per di più positiva) fa rimanere.
Perché c’è un grado di deliberata aggressività che… beh. Ti fa rimanere. Punto.

Qualche anno dopo scoprii che la stessa modalità (velina, busta con venticinque francobolli) era stata usata anche con la compagnia. Con l’aggravante che El tipo aveva anche dovuto sbattersi per andare a cercare l’indirizzo fisico a cui imbucare.

Nel frattempo lo spettacolo scalò il festival di Nervi, e pure quello di Marsiglia, la compagnia veniva riconosciuta dai maggiori giornali di questo e quell’altro emisfero.
E io, dopo la mortificazione, e il disappunto iniziale, dimenticai.

Dal bailarin soltero – che, una volta sorto dal nulla, continuò mefiticamente a spargere le proprie certezze a spot, distruzione dopo distruzione nelle piccole vicende del tango bellunese – cercai di tenermi lontana con alterno successo.

Ma il fatto è che quando cerchi di seppellire una memoria dannosa, prima o poi ti convinci di averla vinta. Per questo ti senti doppiamente assassinata nel momento in cui scopri che il vampiro, invece, morto non lo è mai davvero – a meno di non piantargli un paletto nel cuore.

Sabato sera, più di vent’anni dopo, El tipo stava seduto in versione zombie su una delle sedie del teatro.
Perché c’era uno spettacolo, e lo spettacolo si chiamava “Tango”.
Davanti alle vicende della desaparecida Carla, ha passato il tempo a commentare con disappunto; di fronte alla rappresentazione dello strazio non ha saputo inventare altro che guardare dall’altra parte; ai primi tre passi mossi in scena sulla Milonga Triste suonata (ma sarebbe più giusto dire: compianta) dall’armonica di Hugo Diaz, ha iniziato a borbottare.
Se n’è andato tra i primi, lasciando in tralice una ex detenuta argentina di quegli anni, che gli sedeva proprio dietro – e che, per quanto forte, non ha potuto non notare, non covare apprensione, non sentirsi ferita. 
Di sicuro El tipo, se io scrivessi ancora sui giornali, sarebbe pronto ad affrancare una nuova busta, coi suoi venticinque bolli vecchi. 
Perché, certo, quello che ha visto in scena non corrisponde alla parola Tango del titolo: niente lustrini e gambette per aria. Niente del significato che lui (lui) ha dato a quelle cinque lettere.

Eppure, tipo, una cosa voglio dirtela io, adesso. 
Di una città di nove/dieci milioni di abitanti, e di cinquecento orchestre di tiro lungo e di tiro corto, e di migliaia di sale piazze garage dove si balla, io dubito tu abbia visto davvero tutto. 
Perché se avessi visto tutto sapresti quanto diverso, e ricco, e multiplo è il mondo di questa povera musa da strada – né potresti aspettarti proprio un bel niente, se non una sorpresa eterna. 
Tipo, se il mondo ragionasse come ragioni tu, i guardiani di cimitero non inventerebbero uno stile per la pista, i meccanici, i pasticcieri, i qualsiasi non regalerebbero alle donne il giro e agli uomini gli adornos. Farebbero soltanto i guardiani di cimitero i meccanici i qualsiasi come ci si aspetta canonicamente da loro.
Anzi, guarda: i vecchi farebbero solo i vecchi – a casa, con il brodino e le stelline da tirare su col cucchiaio dal piatto alle nove di sera; non si sognerebbero di infilarsi nella notte con un paio di scarpe lucide e la voglia di esistere dentro una musica fino a quando le gambe tengono.
Non ci sarebbero ragazzetti rock che imbracciano bandoneon. Non giovani voci glamour come neanche Joan Crawford. Non ex metallari che farebbero l’invidia nel timbro a Julio Sosa. Non teste inquiete che a Dino Buzzati rubano le ossessioni per inventarsi una milonga di indiavolate formiche mentali…
Anzi. Non ci sarebbe nemmeno più da studiare: perché sarebbe solo da ripetere quattro acche di un mondo che, se si fosse fossilizzato su una dimensione, col cavolo che sarebbe resistito più di cento anni.

E se sul serio, tipo, tu sei stato sulle navi a ballare, forse lo hai fatto al massimo vomitando nella tua cabina col mare mosso. Perché un bailarin mondano di passi ne deve conoscere per fare il suo mestiere. E il suo mestiere altro non è che la seduzione a scopo di lucro: ci vuole arte, per questo. Non due passi abborracciati (oppure, caro bailarin, sei stato uno di quelli che girano come le patatine intorno al pollo: niente più di una forma periferica di una coreografia di cui non sei mai stato protagonista; ma di questo dubito, perché anche a fare il gregario ci vuole mestiere).

Infine.
Dov’eri, tipo. Dov’eri prima di quello spettacolo. Com’è che fino a quando non hai avuto qualcuno a cui contrapporti non sei mai esistito. Dov’era la tua voce, se avevi davvero così tanta premura di rivelarla al mondo. Com’è che esisti solo nella negazione di qualcun altro, del lavoro di altri, della dedizione di altri, del dolore di altri, delle storie di altri.

Volevo solo dirti questo, tipo: sì, il tango è stato anche merda. La musica di merda che veniva messa a tutto volume quando in quei sotterranei iniziavano a torturare. La merda di una classe dirigente machista, ossessionata dall’ordine, che ha polverizzato una intera generazione, che le donne a seguire, servivano, mica a esistere.
È per questo che le meglio cose di quegli anni le hanno fatte fuori da Buenos Aires: hai presente il Cuarteto Cedron, tipo? Esquina? Stroscio? Piazzolla? Solanas? Gelman? Cortazar?
… Puig? 
È l’esilio che ha permesso al tango di sopravvivere. E ne è uscito ammaccato.

E quando tu schifi questa cosa, e te ne vai con la tua giacchettina nervosa, e rimpiangi i tuoi lustrini e le tue donne con gli occhi chiusi da spalmarti addosso, e il tuo tango unidirezionale dalla verità vera provata standardizzata piombata certificata, caro tipo, beh.
Io non so mica com’è che non vedi quanto ridicolo sei, con la parola verità in mano: non è di verità, che stai parlano; ma di ordine machismo certezze violenza e arroganza costituita.

Che noia, mi hai fatto, in questi ultimi vent’anni. 
Che noia, e che tristezza.
Tutta una vita, senza il coraggio della poesia.

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