Grazia Verasani racconta Ezio Bosso: “Non ho molto tempo”

Un’amicizia nata adulta: subito complessa, subito profonda.

A un anno di distanza dalla prematura scomparsa di Ezio Bosso – pianista, compositore e direttore d’orchestra – Grazia Verasani decide di fermare su carta il tempo del loro legame, e interrogare fino alle radici una stagione intensa di scambi, confronti, osmosi artistica, sfide, intimità intellettuali.
Esce così in questi giorni per Marsilio Non ho molto tempo, un memoir che si muove esattamente in quello spazio di condivisione che proprio alla radice guarda: a quel terreno sorgivo che è luogo comune tra l’amore e l’amicizia, fatto di sentimento e di patimento, di allontanamenti e di corrispondenza.

Ne nasce il ritratto (umanissimo) di un resistente, impiantato in una vita nella quale l’eccezione è una chiave di volta dalla doppia faccia: nel successo quanto nella malattia.

Pensai che era un destino comune non conoscere la nostra data di scadenza, ma che per lui era diverso: Ezio era di corsa, di fretta, impegnato a non scartare nulla di ciò che la vita gli offriva; per lui ogni minuto, ora, settimana, avevano tutto un altro peso, lui il tempo se lo guadagnava a morsi, a spintoni anche quando sembrava sprecato o irrisorio. Amava la vita in modo feroce, assoluto.


Magnetico, seduttivo, provocatorio, imprevedibile, intimo, idealista, appassionato, dolce, terribile, tirannico, elusivo, sincero fino all’osso: l’Ezio Bosso che Grazia Verasani racconta è uomo mai riducibile, che va a duello con le proprie forze, seduce un intero paese brillando dentro al Festival di Sanremo, porta avanti un’idea di musica che è anche un’idea dell’essere musicisti. E che periodicamente scompare nel male entrando, come afferma lui stesso, rigorosamente da solo nelle stanze provvisorie della malattia:

«In quella stanza non c’è nessuna luce, mi entra dentro fisicamente e mi resta addosso anche quando ne esco. Condiziona i miei movimenti, mi impedisce di suonare e il recupero è lungo, ogni volta ricomincio da capo. Potrei dirti che la musica rischiara quel buio, ma no. Il buio permane ed è un suo diritto. Quella stanza non è una metafora, forse è un simbolo, come lo è una montagna o una nuvola. Ma c’è, esiste, ed è un luogo dove sto mio malgrado…»

Tenendosi intelligentemente lontana dall’oleografia, è proprio nella battaglia con il male che il libro di Grazia Verasani rivela tutta la complessità di una convivenza che è, a un tempo, una sfortuna preziosa e una necessaria, estenuante, mai arresa volontà di tenere la posizione: la narrazione è secca, piena di crescendo, di sfumature, di ritorni e, allo stesso modo del celebre quartetto di Schubert, il duello con la morte si traduce in una continua affermazione di vita. E in Non ho molto tempo vita è sinonimo preciso di arte.

Lui era un musicista, un compositore, un direttore d’orchestra. Cosa c’entrava la malattia? Schubert aveva la sifilide, Schumann la pazzia, Chopin la tubercolosi, Liszt era un donnaiolo che finì in convento e Beethoven veniva picchiato a sangue da un padre alcolizzato. Questo cambiava forse il giudizio sulla loro opera?

Lì dove sta il male, sta insomma anche il desiderio del suo contrario: e in questo tutta la vertiginosa, azzardata, irriducibile avventura umana raccontata da Grazia Verasani, fatta di conquiste e silenzi, fiati che non vengono e palchi trionfali, entusiasmi fervidi e delusioni glaciali.
Un uomo con una tale coscienza del proprio talento, del proprio senso artistico, non può venire a patti con un presente dall’orizzonte ingrigito senza cercare di incidervi, anche al prezzo di spezzarvisi contro.

Detestava la mediocrità, il suo potere paralizzante, scrive l’autrice. Gli fa eco, irrimediabilmente, il Leopardi più schietto (Odio la vile prudenza che ci agghiaccia e lega e rende incapaci d’ogni grande azione, riducendoci come animali che attendono tranquillamente alla conservazione di questa infelice vita senz’altro pensiero).

Per questo, aprendo un poco il diaframma della lente, la scena che inquadra la narrazione di Non ho molto tempo è anche più in generale quella di un paese e del suo rapporto con l’arte, di un mondo (quello musicale) che appare profondamente in crisi con sé stesso, ma contemporaneamente è anche una riflessione sulla difficoltà di voler affermare un cambiamento.
È, in sostanza, anche il racconto di uno sforzo lungo quanto una intera esistenza: lo sforzo (totale, e anche irrituale) di comunicare, mediare, piegare, far arrivare ciò che è dentro le nostre vite da quando esistiamo, e che (quando ce ne priviamo) rende ogni cosa più opaca:

(…) lui che spiegava al pubblico le opere che dirigeva, il contesto storico in cui erano nate, le biografie degli autori; il suo modo di simpatizzare con intere platee sciorinando battute brillanti, lui che durante gli applausi alzava al cielo la bacchetta all’unisono con gli archetti dei musicisti dell’orchestra. E sorrideva. Come chi sa di essere felice solo in quel momento, e sa che quel momento non può e non deve mancare.

Ma anche lo sforzo del ricordare la necessità del piacere, della gioia di fare musica, del privilegio di una professione che è creazione (per lui, ogni concerto era una festa, un assalto, un’epifania).
E infine anche lo sforzo di far arrivare la musica come un bene, un patrimonio di cui sentirsi responsabili, una creatura:

Mi disse che non riusciva a far capire agli altri l’importanza della musica, che si sentiva diverso, inadeguato, e non accettava che alcuni elementi dell’orchestra tenessero il cellulare sul leggio o fossero restii a prolungare il tempo delle prove.

Di scarto e di ribellione parla Grazia Verasani nel tratteggiare l’Ezio Bosso amico, l’uomo privato, l’artista fuori dal podio, l’idealista indefesso, il cuoco raffinato e tirannico, il consumatore di Red Bull e di notti passate in chiacchiere, sfide, elucubrazioni, confessioni.
Ma parla anche di libertà e di integrità, di misura di sé rispetto all’altro, di abbandoni fulminanti e recuperi pervasivi. Di un certo modo di sorridere e di un certo modo di eludere.

Di che sostanza è fatta un amicizia?
Questo libro racconta esattamente questo: di tempo condiviso, di memoria.
E di quanto la mancanza sia, essa stessa, benché dolorosamente, vita.

Questo articolo è apparso su Cultweek, qui
Una mia intervista a Grazia Verasani si trova qui

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