P di Pasqua. P di Pound. P di perché.

Il sabato di Pasqua, in piazza, c’è il sole.
E ci sono i poliziotti in tenuta antisommossa, e il cellulare parcheggiato dal lato opposto. E c’è pure la pattuglia.
Conto: sei, sette, otto mitra imbracciati – le facce serie. Poi altri tre, senza mitra, un poco più avanti.
Il sabato di Pasqua c’è il mercato, e tutti si muovono.
«E’ per farci sentire più sicuri»
dice, convinta, una commessa nel negozio di vestiti. Io penso: sicuri da che? Poi esco e faccio il giro largo.
A metà piazza lo vedo: il banchetto. Le tartarughe orizzontali che navigano sul fondo nero. E: le facce. Tutti maschi, tutti giovanotti, tutti senza sorriso, tutti rasati, tutti vestiti di nero.
Porca merda.
Sì, lo so che non è elegante, ma l’unica cosa che mi viene da pensare è esattamente questa: porca. merda.

C’è stato un tempo in cui certe cose non accadevano, semplicemente perché non avevano da accadere. Non era questione ipocrita o di facciata, come la pax augustea: era una questione di buonsenso. Anzi: di senso.
Lì, dai balconi che si affacciano sopra il banchetto degli svolantinanti, gli ultimi giorni di guerra, c’erano i cecchini che sparavano.
Lo ho sentito raccontare almeno quindici volte, da quelli che c’erano stati, al tempo: io, le mie cerimonie della domenica all’alba con le chiese fredde e le corone e quelle facce vecchie che ogni anno diventavano sempre più vecchie, e sempre meno, me le sono fatte tutte (ammettiamolo: nei giornali non che si strappassero i capelli per mandarci la firmona, in quelle occasioni. Mandavano la pischella, bicicletta taccuino e via; tanto, dopo, era sempre: “18/24/30 moduli; prima che puoi, che dopo viene avanti lo sport, grazie”).
Ma, insomma, chi non sa, in questa terra fredda, che la guerra è stata una faccenda maledettamente complicata, e straziante?

Prendiamo una famiglia qualsiasi, come la mia: da una parte c’era la nonna col bar, che aveva una figlia bella. Di giorno arrivava, nel suo pattugliamento periodico, il capitano tedesco ad allungare gli occhi e vaneggiare proposte (e la nonna: oh, se le tremavano le gambe) che andavano addomesticate col sorriso; nello stesso bar passavano pure certi messaggi che nessuno doveva trovare (e la nonna: dove volevi che se li tenesse, se non addosso?).
Dall’altro ramo, tolta la star (il maestro Romolo, repubblicano della prima ora, poi Sindaco, ma ai tempi gentilmente alloggiato e guardato a vista a Bolzano, carcere politico) il resto era gente comune. Mia nonna Renata, per esempio, tutta la pappa della gioventù fascista e delle giovani italiane se l’è sciroppata. Foto: Renata in cappotto e scarpetta, in fila con le coetanee sui porfidi della piazza che allora si chiamava Campitello, e che proprio grazie alle attenzioni fasciste sarebbe diventata “dei Martiri”, a sfilare guardata dalle autorità in tribuna e da un paio di camicie nere col fez in testa.
La stessa nonna Renata, del resto, un qualche legame coi partigiani impiccati al Bosco delle Castagne doveva avercelo avuto, e bello fisso, se, come è successo, alla sua morte sono spuntate fuori una serie di fotografie terrificanti: i corpi lasciati esposti, l’osso del collo spezzato, la magrezza, le maglie povere… dietro, la nonna doveva averci scritto anche i nomi. Ma della guerra, a me, bambina, non ha mai voluto raccontare nulla, se non di certe fughe, quando arrivava l’aeroplano Pippo, suonavano gli allarmi, e tutti in rifugio. La nonna sapeva a memoria “Lili Marlene”, di Radio Londra e di un apparecchio che avevano avuto in casa non ha mai voluto scucirsi, e una volta, una mattina che ero rimasta a dormire da lei, l’ho trovata in cucina che guardava verso il Serva, e piangeva:
«Ricordi… robe brutte»
diceva, dando la colpa a una certa vecchia canzone che passava la radio.
Insomma: in ogni famiglia bellunese la guerra è stata un vero casino di odio, e separazioni, e morti.
Il cugino Pasini, per esempio, ci aveva lasciato le penne: ma di lui restava in famiglia solo un santino con la dicitura “garibaldino” sotto una faccia bella da pellicola epica.

Questo penso, guardando il banchetto di Casa Pound in piazza dei Martiri, il sabato di Pasqua: che certe cose non sarebbero successe, fino a pochi anni fa.

Ma i nonni muoiono, le cerimonie diventano sempre più cerimonie, e sbiadiscono; le corone perdono significato; la memoria ingiallisce.
E i contorni, ahinoi, si confondono.

Dimenticare è un lusso micidiale. Il veleno omeopatico di questo tempo moderno.

Lo sanno, per esempio, quelli che nelle scuole svuotano i contenuti per le competenze, quelli che sostituiscono le crocette ai percorsi, quelli che tagliano la storia, le radici, le conoscenze.

La memoria.

«No, dico: ma DAVVERO voi siete qui schierati, oggi, per quelli del banchetto?»
chiedo ai poliziotti in tenuta antisommossa. Gli piombo davanti, sui miei tacchi e il mio cappottino primavera. Cercano di non guardarmi, se non di lato. Silenzio imbarazzato.
«Siamo qui per prevenire, si-gno-ra»
si scuce uno, alla fine.
Prevenire.
Prevenire ciò che l’idiozia dell’abdicazione della memoria ha già concesso che succedesse.
Dieci uomini, un cellulare, una pattuglia, in centro a Belluno il sabato di Pasqua.
Per un banchetto di neofascisti.

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