Prima che faccia notte

Il 15 agosto 1974 Renzo Dal Mas morì in Marmolada.

Tutto quello che sarebbe successo dopo, nella vita della sua famiglia, ne venne, inevitabilmente, condizionato.Fu, in piccolo, l’equivalente della battaglia di Canne, o dell’incontro tra Leone I e Attila sul Mincio, o della battaglia di Lepanto: uno di quei momenti che fanno prendere alle civiltà una certa piega, e non un’altra, lasciandosi dietro come il ricordo di una vertigine la sensazione della possibilità sfiorata.

Se Annibale non avesse perso tempo; se Leone non avesse pagato; se a perdere fossero state Venezia e la Lega Santa, oggi mangeremmo tutti diverso, penseremmo diverso, pregheremmo diverso, avremmo perfino un paesaggio diverso.

Come spesso accade, l’incidente fu il risultato di alcune sfortunate e banali coincidenze: il fatto che il sestogradista fosse l’ultimo in fila a camminare in cresta, e che non fosse, contrariamente al solito, legato; che avesse nevicato di fresco, come succede non di rado nella seconda settimana di agosto sulle Dolomiti, e che la coltre nuova avesse reso invisibile una spessa lastra di ghiaccio sottostante; che gli scarponi dei primi, camminando, avessero compresso e spostato la neve, lasciando infine affiorare l’insidia nascosta.

Se il postino fosse stato legato. Se non avesse nevicato. Se la cordata fosse stata meno numerosa. Se non fosse stato ultimo.

Se uno solo di questi fattori fosse intervenuto, ecco, la storia sarebbe stata tutta diversa: a Ferragosto il profumo della griglia non si sarebbe mescolato a quello del rancore, la luce del giorno non sarebbe stata smorzata dalle novene della messa in suffragio, la morte non sarebbe diventata quella presenza sovrannaturale, improvvisa e puntuale nei giorni di festa, che – avrei imparato più tardi – avrebbe stroncato qualsiasi elaborazione (la ferita sempre aperta e ben alimentata) sul lutto, esponendo tutti nei decenni successivi al timore perenne e al ricatto della perdita.

Per me, che avevo due anni, non c’è memoria – benché il mio ricordo più antico (più una sensazione, che un ricordo) sia legato proprio a lui: una certa luce, un campanello, la voce di mia madre che ride, i baffi di un pupazzo portapigiama in faccia, l’ultimo regalo.

Tuttavia, come per tutti i membri della famiglia, e in modo singolare per ciascuno, l’incidente avrebbe generato una serie di conseguenze anche per me: l’assoluto disinteresse, quando non la diffidenza, per lo sport e in genere la fatica in montagna; l’insofferenza e un certo timore nei confronti del mese di agosto; l’incapacità a reggere “Signore delle Cime” in qualsiasi forma ed esecuzione.

Per molti anni la morte è stata questa ombra di giorno che finisce troppo in fretta.
Un rapimento incomprensibile.
Una minaccia sempre accesa.
La possibilità di perdere un sorriso.

In questi giorni di agosto, di veglia, di ascolto, di cura, di affetto, di consegna, di prossimità, di limite, di affidamento, di corpo, di respiro, ho imparato altro – e di molto antico – sull’andare.

“Come potrebbe uno nascondersi a ciò che non tramonta mai?”

 

Quando toccherà a me, mi piacerebbe essere, finalmente, onda.

 

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