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Più di così.

Nella vita di ogni insegnante capita di trovarsi di fronte a svolte che non si possono percepire se non come definitive. Clic, fa il cervello. E tu pensi: “Più di così, non si può”.
La sensazione, per capirci, è quella di uno schianto glorioso.

Succede ogni anno, quando vai ad affiggere la tabelle con i risultati della maturità (il primo sguardo solitario ai nomi incorniciati dalle puntine da disegno, o dallo scotch: una specie di ius primae noctis).
Succede quando resti sola sul piazzale delle corriere dopo aver riconsegnato al termine della gita anche l’ultimo pargolo (o pargolessa) indenne, ma con più occhi, alla sua vita.
Succede in qualche cena di Natale, o di compleanno, o finale in cui assaggi la libertà e l’armonia dello stare bene insieme – e ci sguazzi con la consapevolezza di una che, dopo il massacro di mesi di allenamento, si spaparazza dentro una jacuzzi (mai successo, ma io la jacuzzi me la immagino così).

Fare l’insegnante è anche essere esposti, periodicamente, all’esperienza del limite: una cosa strana, carica, insieme, di appagamento e di malinconia. Felicità e allontanamento nello stesso tempo.

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A che gioco giochiamo.

A che gioco giochiamo, quando chiediamo i numeri dei non vaccinati di una categoria di lavoratori che è stata tra le prime ad essere vaccinata (percentuali almeno della prima dose: 85 %).
A che gioco giochiamo, quando ventiliamo di stilare elenchi di non vaccinati modello liste di proscrizione sovrapponendo in quello che affermiamo la mancanza (presunta) a una volontà degli stessi di non sottoporsi.

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C’era – una volta – la scuola serale.

La fabbrica prende, la fabbrica dà.

Contratti di tre mesi uno due poi rinnovo magari sospendo non si preoccupi prof comunque in prova può essere che dopo comunque nel frattempo.
Turni di due di tre poi si cambia ma forse la giornata però a sei ore vediamo otto ore e poi le notti se mi chiedono vuoi mettere a quanto le pagano le notti in fondo è soltanto da stare svegli le notti – o no.
I permessi per continuare a frequentare?

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Da una panchina all’abisso.

…e pensare che è cominciato tutto dalle panchine. 
Bisogna impedire ai poveretti di dormirci, disse qualcuno nel profondo Veneto (perchè i poveretti, si sa, vederseli in giro fa sempre un certo che). E si cominció a tirare il capitone dalla coda. Lentamente. Passo dopo passo. All’indietro, dalle profondità degli abissi dove era stato spedito solo qualche decennio prima – fino alla luce. 
Segare le panchine perchè i disgraziati non ci si potessero stravaccare (raffinato, in fondo, il ragionamento: togliere. fine. via tutti. eradere. rauss. piallare. 
Non: aiutare 
Non: risolvere 
Non: comprendere 
Non: rispettare). 
E così fu che ci abituammo all’ordine: un solo culo per seduta, un solo gomito per bracciolo, un solo zaino per spalliera. Limitrofi, ma addomesticati alla separazione omeopatica – lì, dove prima e culi e ginocchia e braccia distese di bambino e valigie messe in pizzo e dammi un pezzo di angolo e dai che se ci stiamo in tre si sta pure in quattro. 
Cominció così, e in pochi si resero conto che nello spuntare dal nulla di un semplice poggiagomito si realizzava una delle più oculate spallate all’umanità.
(Poi furono: il cibo per i bambini alle mense, i posti nelle case popolari, i proiettili sparati a vanvera, le pagelle cucite sulle giacche annegate, i porti chiusi).

(Ma tutto questo, in fondo, era già contenuto in quel primo atto di guerra civile. Cancellare gli ultimi. Cancellare gli altri. Cancellare).

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