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Da una panchina all’abisso.

…e pensare che è cominciato tutto dalle panchine. 
Bisogna impedire ai poveretti di dormirci, disse qualcuno nel profondo Veneto (perchè i poveretti, si sa, vederseli in giro fa sempre un certo che). E si cominció a tirare il capitone dalla coda. Lentamente. Passo dopo passo. All’indietro, dalle profondità degli abissi dove era stato spedito solo qualche decennio prima – fino alla luce. 
Segare le panchine perchè i disgraziati non ci si potessero stravaccare (raffinato, in fondo, il ragionamento: togliere. fine. via tutti. eradere. rauss. piallare. 
Non: aiutare 
Non: risolvere 
Non: comprendere 
Non: rispettare). 
E così fu che ci abituammo all’ordine: un solo culo per seduta, un solo gomito per bracciolo, un solo zaino per spalliera. Limitrofi, ma addomesticati alla separazione omeopatica – lì, dove prima e culi e ginocchia e braccia distese di bambino e valigie messe in pizzo e dammi un pezzo di angolo e dai che se ci stiamo in tre si sta pure in quattro. 
Cominció così, e in pochi si resero conto che nello spuntare dal nulla di un semplice poggiagomito si realizzava una delle più oculate spallate all’umanità.
(Poi furono: il cibo per i bambini alle mense, i posti nelle case popolari, i proiettili sparati a vanvera, le pagelle cucite sulle giacche annegate, i porti chiusi).

(Ma tutto questo, in fondo, era già contenuto in quel primo atto di guerra civile. Cancellare gli ultimi. Cancellare gli altri. Cancellare).

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