Limitrofo è un parola che nasce meticcia, mezzo latina e mezzo greca, e ingloba dentro di sé i concetti di confine e di nutrimento; per scovarne le origini bisogna risalire fino al Tardo Impero: lì, lungo quella incredibile macchina di inerzia bellica che tra avamposti muri ed empori volanti segnava la fine del territorio di Roma, limitrofe erano le terre intorno al limes, quelle da cui arrivavano cibo e vettovagliamenti per le truppe di stanza.
Conosciuto e sconosciuto, abitante e ospite, autoctono e straniero sono tutte categorie che, in questo spazio, hanno una lettura complessa e una natura labile e stratificata: cosa è l’identità, cosa sono le radici, cosa la lingua, infatti, se già l’aggettivo che definisce il luogo della frontiera contiene in sé, insieme, le idee di mescolanza, vicinanza e nutrimento?
Limitrofo è il luogo di chi assomiglia ma non è identico, di chi si conosce ma non del tutto, di ciò in cui ci si rispecchia ma che mantiene alterità.
Limitrofo è anche il territorio del dubbio possibile: quanto, davvero e in profondità, siamo in grado di comprendere chi ci sta accanto?