prima della milonga.

Alle 10 del mattino la casa è già piena di musica. Alberto scorre l’archivio: di venti secondi in venti secondi, i violini e i pianoforti, i silenzi, le pause, i ritardi, i tempi percussivi e le variazioni occupano tutto lo spazio tra la sala e lo studio.
Di Sarli. D’Arienzo. Pugliese. Gobbi. Piazzolla. Fresedo. Troilo. Grela. Varela.
I nomi si confondono ai titoli: abbiamo ospiti che fanno stringere gli occhi. Indietro.
Di quanti tanghi. Di quante notti. Di quanta strada.

C’è una televisione accesa; c’è un libro di storia romana lasciato in mezzo alla crisi del terzo secolo; c’è un salotto che non si può vivere; c’è un’ora nella quale tutto il mondo dorme. Un’ora in cui tutti dovrebbero tacere. Ma dallo schermo escono parole che si capiscono a metà.
Ascoltare è sentire. Non si può non sentire.

“Anclao en Paris” è stato il primo: che ancora bisognava arrancare con la testa per sfiorarne il senso. Che storia era mai, quella; che si ingarbugliava dentro le pieghe dei tessuti connettivi più profondi, fatta di ricordi non conosciuti, e malinconie indecifrabili, e una lingua altra.
Il senso di andare. Necessariamente. Questo insegnava il primo tango: che l’assenza esiste.

Nel secondo, capire.
Capire è stato due suoni con accento spostato – un bandoneon che lancia il suo richiamo nel vuoto di una pausa, raccolto da un contrabbasso lungo e pieno. Come una promessa. Capire, durante una vita che era tutta un’altra cosa. Quaranta coppie dentro una stanza con il pavimento duro e i vetri sudati dietro le tende di velluto color vinaccia, mai lavate da millenni. Avere un corpo che vuole parlare. Accorgersene, prima che sia troppo tardi. Di chi è questo pezzo?
Osvaldo Pugliese. Conosci? diceva.
E il titolo?
L’altra vita era cominciata in quel momento, con un passo in avanti e uno laterale.
Lo leggerai un’altra volta.
e-man-ci-pa-ciòn: si chiamava proprio così.

Per scriverlo, oggi, ho un accento sbagliato. Come tutte le guerre che ci sono state dopo: e manifesti strappati, e telefonate, e a cosa ci serve una ferrari quando a noi basta una cinquecento, e crepe, ed esperimenti di odio di gruppo in vitro, e.
E il senso di andare. Necessario.

Alberto sta scorrendo la sua playlist, la responsabilità di domani abita tutto lo spazio dello studio, dalla libreria all’abbaino, dal computer al soppalco. Ci sono i cantati.

“Vida mia”: e siamo in tre, nella notte, con un cavalletto pesante e una serata pesante e un caffè innominabile che ci riempie di dubbi. Io e Lucia ce lo chiediamo, senza dircelo: siamo sicure che raccontare l’Italia del tango sia proprio una buona idea? Chilometri.

“Alma, que en pena vas errando”: Cucuza Castiello sgrana le parole, e la chitarra su cui costruisce la storia antica dell’esclusione d’amore è favolosa. Ancora ricordi, intrecci, allegrie perdute, perdoni. Chilometri di vita: facce, storie, luoghi, immagini, bianchi e nero. Tacchi, taxi, tango. Due libri. Il terrazzo di Roma di un premio soleggiato, giugno biondo e il Vittoriano a un braccio di distanza, i calici pieni di un vino che cominciava ad essere esotico: prosecco di Valdobbiadene, esibiva il maître in guanto bianco.
Andare, sì, era stato necessario.

Di strada se n’è fatta. A quindicimila piedi, avanti e indietro. Brian Chambuleyron canta “Araca corazòn”, e il mio accento sta sempre dalla parte sbagliata della tastiera: il quinto tango. Che va a braccetto con il sesto: “era rubia, y sus ojos celestes” canta un vals romantico e fuori tempo, come un giro di rotaie che si perde dentro una periferia polverosa. Stanno dall’altra parte dell’Atlantico. Io sto da questa parte della tastiera. Ogni tanto sogno forte e mi sveglio di là.
Andare, prima o poi, sarà necessario.

Nel frattempo il giorno ha ceduto. Ho cominciato ad ascoltare quando il sole era alto.
Ora, nella stanza, “A los amigos”: la nostra prima coreografia, suona nel buio. E’ un pomeriggio di sei anni fa: la stessa emozione, e il pudore, e l’ansia di fronte a quelle lezioni.
Imparare quale movimento richiede uno spazio: questo insegna, il settimo tango.
Imparare a costruire.
Dove vanno, tutti i passi che si dimenticano?
Dove vanno, tutti i passi che si insegnano?
Possiamo dimenticare. Possiamo abbandonare. Rimuovere, cancellare.
Io stessa ho dimenticato, e abbandonato, e rimosso, e cancellato.
Ma il fatto è che, ogni volta che la musica comincia, e il corpo ascolta – e il respiro, le ginocchia, gli alluci, le scapole, ogni minima molecola di quello che esiste e percepisce – ecco: in quel momento io sono, di nuovo e sempre, quel segno preciso, quel modo, quel movimento. Lo stesso che mi è stato insegnato la prima volta: che non potrà essere mai cancellato, né rimosso, né abbandonato.
Sarà questo il crocevia di tutti i legami.
Ognuno porta nel tango quello che è.

 

“Hasta siempre amor”.
Mancano meno di ventiquattro ore, e saremo di nuovo dentro a un’altra storia.
Andare è sempre più necessario.
Ma ci sono cose che restano.
Nessuno potrà mai toglierci tutto quello che abbiamo ballato.
Questa, è la felicità.

Benvenuta, Milonga a palazzo!

 

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