La verità, vi prego, sulla verità!

È talmente fondamentale, che la notizia – già in sordina al mattino – ha continuato a scivolare giù giù, e la sera era praticamente scomparsa dalle testate on line.
Dice Valeria Fedeli, Ministro della Pubblica Istruzione, che siamo in un guaio: i ragazzi non riconoscono le fake.

Dice che: sì, è un problema.
Dice che: sì, la soluzione c’è.
Dice questo, dice, che la questione sarà:
«La certificazione del vero non solo delle informazioni ma anche dei contenuti che si trovano nel digitale»

No, non sono arrabbiata.
È che resisterò. Tutto qui.

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Il più cattivo dei cattivi. “Pedro Páramo” di Juan Rulfo

Quando Juan Rulfo acquistò per mille pesos la Remington Rand sulla quale avrebbe scritto il romanzo della sua vita era già stato orfano di un padre ucciso a fucilate, nipote di un nonno di otto dita (i pollici gli erano rimasti attaccati alle corde dalle quali i banditi lo avevano lasciato penzolare), bambino depresso in un orfanotrofio dalla disciplina ossessiva.

A trent’anni suonati aveva alle spalle una intima e solida confidenza con la precarietà della vita: l’infanzia se l’era giocata tra la polvere da sparo del Messico in rivolta (Cristeros contro esercito federale) e il fumo dei ceri nelle infinite veglie funebri per morti sparati, morti annegati, morti e basta che andavano costituendo la sua personale costellazione famigliare.

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Una questione di tipicità

Dovremmo anche ringraziare il 30 agosto in nome della schiettezza. Era ora che qualcuno lo dicesse per dritto, dai.
Anzi, subito un calendario: ce l’abbiamo una giornata annuale della “tipicità”? No?
Ecco.
Propongo che da ora in avanti si commemori il momento in cui – e finalmente – qualcuno ha detto in faccia alla montagna cos’è che deve essere, ora e per sempre (ché, come direbbero i Baci Perugina, nostra fonte somma di sapere e conoscenza, non si tradiscono i sogni).
Dunque: tale Fabio C., come si è, fin da subito, schiettamente firmato, il fegato, lui, ce l’ha avuto.

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Addio scuola.

In terza elementare, per la prima volta, ho imparato cosa vuol dire la differenza. La maestra, appena cambiata, faceva parte di una vecchia guardia che al tempo sembrava in via d’estinzione: donne sempre molto anellate, sempre molto abbronzate, profumate e laccate, sempre e solo completini sartoriali acquistati nelle due boutique del centro storico, De Castello e Tonegutti.
Una tipologia facilmente riscontrabile nelle piccole province, dove il microcosmo amplifica sempre il peso del ruolo.

La maestra sapeva bene chi era figlio di chi, e chi no. Mica che servissero i megafoni. Era da sottili distinzioni (il posto del banco, una frase chiusa più e meno bruscamente, chi chiamare a leggere a voce alta, di chi elogiare il tema… ) che apprendemmo, a nostre spese e all’inizio a nostra insaputa, che esisteva una differenza tra la figlia del capo dei vigili e la figlia di una donna delle pulizie.

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Istruzioni per il mondo di oggi. Ovvero: nove motivi per cui “La scuola cattolica” è un libro importante. Anzi: fondativo.

Se almeno una volta in vita vi è capitato di aprire un giornale e non capire. Se ve lo siete chiesti, che ci fate, a girare pagina col caffè che si fredda in mano tra bagni di sangue e di lacrime, banche che saltano, miserie improvvise, donne stuprate sfregiate fatte a pezzi, bambini infilzati, preti macellati e preti di occhio vischioso, parole che abdicano dal loro significato e fuggono nelle periferie del senso, violenze esibite a fianco di immancabili tette culi e (poco) rock ’n’ roll. Ecco, se questa vertigine da scollamento l’avete anche solo sfiorata, siete pronti per “La scuola cattolica” di Edoardo Albinati.

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della Maturità, della vulnerabilità.

Com’ero io, il pomeriggio prima della Maturità?
Vulnerabile, come tutti.
A ripassare con un’ansia solida, in un tempo solido, materie che andavano inchiodate nella memoria (se poi non mi viene niente? se mi dimentico tutto?) prima che se ne scappassero via. E allora bisognava mettere paletti, crocifiggerle dentro la testa in formule, epigrammi, distillati.
(Montale: oscuro simbolismo analogia cocci aguzzi di bottiglia muro mare. Varco)
Io stavo seduta dietro la porta a vetri della Biblioteca Civica. C’era sempre il quadro angosciante di Masi Simonetti (che non aiutava). C’era la sensazione di una certa – pura – solitudine (troppo simbolismo, troppe ellissi, troppo ascolto di “La morte e la fanciulla”).
Il mio, di varco, era quel vetro. Lo stesso a cui penso, oggi.

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L’arte del sussurro. Ovvero: delle nuove frontiere di disconnessione sociale

«ASMR»
dice.
«Che?»
Siamo in cinque: tolti i suoi, fanno otto occhi a padella intorno a un tavolo.

Mia sorella tecnologica è sempre stata proiettata avanti (per dire: della sindrome di Hikikomori mi ha spiegato cosa e come, prima ancora che ne incrociassi il mio primo caso scolastico; e, se sono corsa a vedere Nausicaa nella Valle del Vento, e tutto Miyazaki, è perché mi ci ha spedita lei).
Insomma: è la ragazza più contemporanea che io abbia mai conosciuto.
Ma quando ieri è uscita la storia dell’ASMR, giuro, non volevo crederci.

In breve ci spiega, a noi attorno al tavolo, che esiste gente che campa di sussurri.

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