Cara M., che la scuola sia un atto contro natura non è un mistero: a nessuno, spontaneamente, piace fare fatica. Tanto meno una fatica di cervello.
Cara M., che la scuola sia un atto contro natura non è un mistero: a nessuno, spontaneamente, piace fare fatica. Tanto meno una fatica di cervello.
Quando Guglielmo Scandi si dà fuoco (volontariamente? incidentalmente?) sulla spiaggia di Riccione avvolto nella bandiera italiana, le sue immagini rimbalzate dalla televisione non possono essere più lontane dalla compostezza mistica di un bonzo che si immola per la propria libertà.
Quel corpo martoriato, insieme grottesco e tragico, è per Alberto – che con Guglielmo ha tranciato da anni ogni rapporto dopo esserne stato estremamente ferito – qualcosa di più di un fatto di cronaca, a corollario drammatico della parabola discendente di un comico non più giovane, non ancora vecchio ma in fondo unanimemente considerato già bollito.
Quel gesto è l’irruzione dal nulla di un urlo, il richiamo di una sirena ferita a morte.
Una donna, una ragazza, un fantasma, un seduttore seriale, una psicologa.
Agli estremi stanno la donna (il soggetto, nominativo, voce narrante, che insieme è anche oggetto del tema sotteso a tutto il romanzo), e all’opposto la psicologa (il vocativo, quella a cui tutti si rivolgono).
In mezzo, obliqui, sono la ragazza (con il suo nodo di appartenenza familiare), il fantasma – che poi è una fantasma – inchiodata alla rabbia di un amore ingrato vissuto cent’anni prima, e infine il seduttore seriale, veicolo inquieto di inappagamento tra un rapporto finito e una moltitudine di prede da consumare e abbandonare.
Nella vita di ogni insegnante capita di trovarsi di fronte a svolte che non si possono percepire se non come definitive. Clic, fa il cervello. E tu pensi: “Più di così, non si può”.
La sensazione, per capirci, è quella di uno schianto glorioso.
Succede ogni anno, quando vai ad affiggere la tabelle con i risultati della maturità (il primo sguardo solitario ai nomi incorniciati dalle puntine da disegno, o dallo scotch: una specie di ius primae noctis).
Succede quando resti sola sul piazzale delle corriere dopo aver riconsegnato al termine della gita anche l’ultimo pargolo (o pargolessa) indenne, ma con più occhi, alla sua vita.
Succede in qualche cena di Natale, o di compleanno, o finale in cui assaggi la libertà e l’armonia dello stare bene insieme – e ci sguazzi con la consapevolezza di una che, dopo il massacro di mesi di allenamento, si spaparazza dentro una jacuzzi (mai successo, ma io la jacuzzi me la immagino così).
Fare l’insegnante è anche essere esposti, periodicamente, all’esperienza del limite: una cosa strana, carica, insieme, di appagamento e di malinconia. Felicità e allontanamento nello stesso tempo.
Sono usciti i certificati.
Dai cassetti, dalle carte che per mesi non ho avuto la forza di mettere in ordine, dalle borse.
Sei in tutto, anche se erano di più. Qualcuno si è perso per strada.
Così l’anno che è stato rigurgita sui numeri messi in fila dei giorni accuratamente rimossi.
A che gioco giochiamo, quando chiediamo i numeri dei non vaccinati di una categoria di lavoratori che è stata tra le prime ad essere vaccinata (percentuali almeno della prima dose: 85 %).
A che gioco giochiamo, quando ventiliamo di stilare elenchi di non vaccinati modello liste di proscrizione sovrapponendo in quello che affermiamo la mancanza (presunta) a una volontà degli stessi di non sottoporsi.
È la tua punta che scava, infitta, circolare, la lotta della sabbia che ricolma la buca, a svegliarmi.
Ascolto l’ombra del telo che stendi: aderisce perfetto al mio perimetro di lino – dove non più cinabro, non più ricamo prezioso.
Chi sei, tu che non sai delle mie gambe mozzate, delle clavicole appaiate, dello sterno, del mio orecchino di bronzo, dell’oro modellato in minuscole fibule?
Hai un cuore pesante, due chiodi senza espiazione, esposti (diastole e sistole contro il soffitto dei miei ricordi).
Northia forse non ti tiene più, eppure mi hai chiamata a te: le tue ginocchia contro le mie ginocchia, la tue spalle contro le mie spalle, la tua testa dove è la mia testa – il mio orecchio chiuso sul tuo orecchio.
Se mi spingo fino a te, tu mi sentirai?
Aspetto solo che ti addormenti.
La storia vista attraverso il romanzo, un noir sceneggiato come un horror, un giallo ambientato in una Milano misteriosa, l’arte come strumento di conoscenza e di salvezza, una parabola fantastica e tragica sulla libertà, il senso profondo di un lutto: sette consigli per leggere tutta l’estate, in diretta dalla più recente stagione letteraria italiana.
Eccolo qui: il catalogo delle storie da portarsi dietro.
E se chiudersi in casa, non agire, non reagire, fosse l’ultima possibile forma di resistenza a fronte di un potere che ragiona solo in termini di violenza, che non governa ma impone, che vezzeggia il privilegio e schiaccia gli uomini giovandosi della paura e della divisione sociale?
Se una semplice frase passata per bocca di casa in casa, scritta col gesso per le strade, verniciata sui muri, stampata su anonimi volantini, si trasformasse nel detonatore di una coscienza collettiva, chiamando ciascuno (anche i disillusi, i danneggiati e i riottosi) a dar prova di una scelta civile?
Un’amicizia nata adulta: subito complessa, subito profonda.
A un anno di distanza dalla prematura scomparsa di Ezio Bosso – pianista, compositore e direttore d’orchestra – Grazia Verasani decide di fermare su carta il tempo del loro legame, e interrogare fino alle radici una stagione intensa di scambi, confronti, osmosi artistica, sfide, intimità intellettuali.
Esce così in questi giorni per Marsilio Non ho molto tempo, un memoir che si muove esattamente in quello spazio di condivisione che proprio alla radice guarda: a quel terreno sorgivo che è luogo comune tra l’amore e l’amicizia, fatto di sentimento e di patimento, di allontanamenti e di corrispondenza.