Bruno Osimo, “Primo Levi, miti d’oggi” – Gabor T. Szántó, “1945”. In nome della Memoria.

La Memoria è una divinità difficile.
Elusiva e necessaria, ci dice il mondo antico: non per niente le rappresentazioni che ne abbiamo sono rare, e in fondo generiche. Dovremmo ricordarci di questa labilità originaria, perché è indicativa di un rapporto complesso, caratterizzato da un mistero di cura legato ai riti di incubazione, alla trasformazione e, in ultima analisi, alla sopravvivenza.

D’altro canto, che il rapporto che la Memoria intrattiene con la parola sia qualcosa di eccezionale, e di generativo, lo rivela la responsabilità primigenia che le compete. Diodoro Siculo (che di faccende divine anche sottili e inusitate se ne intendeva) assicura che fu lei a regalare agli uomini la capacità di dare i nomi alle cose visibili e non visibili; munendo il genere umano, dunque, della possibilità di comunicare – al presente, con il passato e per il futuro.

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Virginia, ovvero “La donna che osò amare sé stessa”: Valeria Palumbo e la Contessa di Castiglione

Esistono molti modi per cancellare una presenza ingombrante.
Il primo è ridimensionarne l’importanza; il secondo sottolinearne la poca affidabilità; il terzo raccontarla sempre all’ombra di qualcun altro; il quarto sbeffeggiarla e confinarla tra le bizzarrie, o gli errori; il quinto evidenziarne le scelte che amplificano la sua incongruenza rispetto a ciò che la norma attende; il sesto ricordarla (quando ancora non se n’è dipartita) come una parentesi di esagerazione (o di esagitazione) animando nei suoi confronti la pietà, o il ribrezzo – in ogni caso: il confino.
Fatto tutto questo, la memoria è pronta per essere lentamente soffocata, offuscata, ridotta al silenzio dentro il lacciuolo della cancellazione oculata e assertiva.

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Giancarlo Liviano D’Arcangelo: L.O.V.E. – l’estratto conto della vita

Un padre, un figlio prediletto, un secondogenito in tutto e per tutto non consono alle aspettative, un impero costruito sulla scaltrezza e il cinismo, l’etica demolita fino alle fondamenta, la violenza in ogni atto e in ogni pensiero, i soldi – a fiumi -, l’incapacità di frenare l’avidità fino al sacrificio estremo di ogni legame.

La foto del microcosmo con tentacoli la scatta L.O.V.E., il romanzo di Giancarlo Liviano D’Arcangelo, pubblicato da Il Saggiatore e finalista al Premio Biella, e potrebbe facilmente (tragicamente) attagliarsi al profilo di tanta storia italiana degli ultimi sessant’anni.

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La parola non è mai innocente. Alberto Garlini, “Il sole senza ombra”

Quando Guglielmo Scandi si dà fuoco (volontariamente? incidentalmente?) sulla spiaggia di Riccione avvolto nella bandiera italiana, le sue immagini rimbalzate dalla televisione non possono essere più lontane dalla compostezza mistica di un bonzo che si immola per la propria libertà.
Quel corpo martoriato, insieme grottesco e tragico, è per Alberto – che con Guglielmo ha tranciato da anni ogni rapporto dopo esserne stato estremamente ferito – qualcosa di più di un fatto di cronaca, a corollario drammatico della parabola discendente di un comico non più giovane, non ancora vecchio ma in fondo unanimemente considerato già bollito.
Quel gesto è l’irruzione dal nulla di un urlo, il richiamo di una sirena ferita a morte.

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Daria Bignardi, “Oggi faccio azzurro” (e Kandinskij, per una volta, incassi).

Una donna, una ragazza, un fantasma, un seduttore seriale, una psicologa.
Agli estremi stanno la donna (il soggetto, nominativo, voce narrante, che insieme è anche oggetto del tema sotteso a tutto il romanzo), e all’opposto la psicologa (il vocativo, quella a cui tutti si rivolgono).
In mezzo, obliqui, sono la ragazza (con il suo nodo di appartenenza familiare), il fantasma – che poi è una fantasma – inchiodata alla rabbia di un amore ingrato vissuto cent’anni prima, e infine il seduttore seriale, veicolo inquieto di inappagamento tra un rapporto finito e una moltitudine di prede da consumare e abbandonare.

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Più di così.

Nella vita di ogni insegnante capita di trovarsi di fronte a svolte che non si possono percepire se non come definitive. Clic, fa il cervello. E tu pensi: “Più di così, non si può”.
La sensazione, per capirci, è quella di uno schianto glorioso.

Succede ogni anno, quando vai ad affiggere la tabelle con i risultati della maturità (il primo sguardo solitario ai nomi incorniciati dalle puntine da disegno, o dallo scotch: una specie di ius primae noctis).
Succede quando resti sola sul piazzale delle corriere dopo aver riconsegnato al termine della gita anche l’ultimo pargolo (o pargolessa) indenne, ma con più occhi, alla sua vita.
Succede in qualche cena di Natale, o di compleanno, o finale in cui assaggi la libertà e l’armonia dello stare bene insieme – e ci sguazzi con la consapevolezza di una che, dopo il massacro di mesi di allenamento, si spaparazza dentro una jacuzzi (mai successo, ma io la jacuzzi me la immagino così).

Fare l’insegnante è anche essere esposti, periodicamente, all’esperienza del limite: una cosa strana, carica, insieme, di appagamento e di malinconia. Felicità e allontanamento nello stesso tempo.

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A che gioco giochiamo.

A che gioco giochiamo, quando chiediamo i numeri dei non vaccinati di una categoria di lavoratori che è stata tra le prime ad essere vaccinata (percentuali almeno della prima dose: 85 %).
A che gioco giochiamo, quando ventiliamo di stilare elenchi di non vaccinati modello liste di proscrizione sovrapponendo in quello che affermiamo la mancanza (presunta) a una volontà degli stessi di non sottoporsi.

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