la formazione dell’insegnante di lettere

Si chiamava Giuseppe Martini, e a usare il tempo passato faccio fatica, perché c’è ancora una parte di me che non vuole credere che sia successo quello che, poi, è successo.
La prima volta, era il 2002: rosso, di capelli e di faccia, gli occhiali montatura di metallo. Ho un ricordo di sole, fuori dalle finestre grandi della scuola: come sempre, in settembre. Noi, tutti, nell’aula. Mattina, pomeriggio; e poi, ancora, mattina, e pomeriggio. Venti solide ore.
E fuori il sole, a scaldare che faceva venire le malinconie da autunno in montagna – ecco, avevo pensato appena varcata la porta che, di lì a una decina di giorni, avrei infilato quotidianamente fino al luglio successivo, questo è un giorno da scappare in laguna, le ombre già si allungano e tu sei qui; altro che corso di formazione. La vergogna del pensiero era stata subito pari al senso di ribellione: mai stata brava a fare Lucignolo…
A un certo punto della lezione, lui si toglieva il maglione: arrotolava le maniche della camicia, spingeva gli occhiali indietro sul naso, con la nocca dell’indice, e, intanto, si stropicciava la bocca e il mento con la sinistra. Me lo ricordo così: fermo, in quella concentrazione.
Eravamo: impegnativi. In realtà, esistono pochi uditori più impegnativi di una classe di insegnanti.
E noi eravamo la periferia della periferia dell’insegnamento: eravamo il Ctp, Centro Territoriale Permanente per la formazione e l’educazione in età adulta. Una cosa nata, ministerialmente, cinque anni prima, sulla scorta di cinquant’anni di scuola e corsi per lavoratori. Il carcere di giorno, di sera l’aula multiplex: multilingua, multietà, multietnia, multiscolarizzazione, multimotivazione; multi-tutto.
Com’è che ero finita lì?
Lo avevo scelto. Ovvio.

Oddio, del fatto che quella fosse per me l’unica e ovvia e migliore scelta possibile, avrei avuta conferma solo molto tempo dopo, guardando in prospettiva tutta quella che è stata la mia carriera scolastica.
Non so se sarebbe stato uguale, se quel 2 di settembre non fossi entrata in quell’aula, nonostante il sole, per ascoltare la lezione di Giuseppe Martini.
E’ stato da lui che ho capito la differenza tra docente, insegnante e maestro. Un discrimine fondamentale per comprendere chi, e quanto, e come ha segnato le tracce della mia formazione.
Di chi sei figlio? chiedono, da queste parti, i vecchi. Sembra una sciocchezza, invece la figliolanza è fondamentale: dice di chi sei, a chi appartiene il tuo passato, quali sono i tuoi padri, com’è nato il tuo pensiero, chi ha seguito e da chi si è staccato.
Gli insegnanti sono figure che plasmano: nel bene, e nel male. Avere dei buoni padri è il primo passo per formare dei buoni figli. In mezzo c’è una cosa che si chiama responsabilità.

Ho deciso di fare l’insegnante in prima liceo, durante una lezione su Catullo.
Belluno è una città piccola. Da sempre i nobili sono un pugnetto di sillabe a cognome binario – Miari-Fulcis, Barcelloni-Corte, Pagani-Cesa – che fa il girotondo tra sé e sé, i notai sono stirpi monorotaia che firmano atti con i medesimi svolazzi da secoli, la borghesia liberale è stata appena una teoria schiacciata sotto i tacchi di Checco Bepi, e poi la guerra ha impegnato i cervelli in altre faccende che non la coltivazione degli intelletti e lo sviluppo culturale. Insomma: per lungo, lunghissimo tempo il Liceo Classico “Tiziano” è stata una enclave riservata alla classe dirigente; le cose erano (un po’) cambiate quando l’ho frequentato io, che l’ho fatto con ardore, sempre che si possa dire che una scuola si fa con ardore – ma è l’unica parola che assomiglia a quella sensazione di entusiasmo, dedizione e meraviglia di quando, il pomeriggio, iniziavo a studiare. Se penso a me, in quel periodo, penso a una specie di Alien chiuso dentro allo scriptorium de Il nome della rosa: entravo nella Biblioteca Civica per prima e ne uscivo per ultima, spolpando schedari e vocabolari e versioni e libri. In immersione.
Il fatto era che a me piaceva proprio quello che studiavo: era mio, ero io. Anche se era stato scritto duemila anni prima. Phi-lo-ka-lou-men.
Il giorno della lezione su Catullo, io ero interrogata. Avevo studiato? Avevo studiato. Ma alla traduzione non ci sono mai arrivata.
«Rileggi» diceva il professore.
Io ero seduta insieme agli altri agnelli del sacrificio, ai lati della cattedra. Il carme era già stato letto cinque volte (Vivamus, mea Lesbia), ma a lui non bastava (atque amemus).
«Non c’è, non ci sei».
E, allora, di nuovo: Vivamus, mea Lesbia… Si saranno baciati diciottomila volte, fin a consumarsi la bocca, quella mattina, Catullo e la sua bella. Ma il professore voleva di più. Molto di più.
Rileggi. Ascolta. Ascoltati. Ascoltali.
Senti. Sentili.
Sentiti.
A un certo punto, è successo. Il trasferimento della bellezza. E cosa c’è di più bello, di più esaltante, di più terribile, di aprire i cervelli alla bellezza? In quel momento ho deciso: avrei fatto l’insegnante.

E qui arrivo a quella fondamentale intuizione del 2 di settembre 2002: la distinzione tra docenti, insegnanti e maestri. Ovvero tra chi ripete informazioni, chi passa informazioni e chi costringe a prendere posto dentro le informazioni – dunque, in sostanza, a farle proprie.
Tre tipi di studenti esistono, diceva Giuseppe Martini nell’aula del mattino, avviata luminosamente a diventare una sauna finlandese:
«Ci sono quelli che imparano grazie all’insegnante; quelli che imparanosenza l’insegnante, quelli che imparano nonostante l’insegnante. Cosa hanno in comune tutti? Che imparano».
Fu, per me, l’equivalente della rivoluzione copernicana.
«Cos’è l’apprendimento?»
chiedeva il nostro – tolta la cattedra davanti, noi tutti con le sedie in semicerchio, a guardarci in faccia, perché, ci aveva fatto notare subito, non si può passare venti ore a fissare la schiena di quello che sta davanti. Figuriamoci otto anni di scuola.
«L’apprendimento è ciò che resta dopo che si è dimenticato ciò che si è imparato; quindi è un incremento di conoscenze, cioè di nozioni, oppure di procedure, oppure di atteggiamenti. E la facilitazione, cos’è? – incalzava – E’ sfruttare i meccanismi della natura perché l’apprendimento sia facilitato. Voi sapete cos’è l’insegnamento?»
Cos’è, chiedevamo.
«L’insegnamento è apprendimento più facilitazione. E’ mettere in atto delle tecniche da professionista in maniera da rendere semplice l’apprendimento: molto semplicemente, è una operazione che va contro natura».
I nostri occhi a padella nel sole di mezzogiorno.
«Voi – diceva Martini – dovete trasformare il dovere in diritto: la motivazione non è una benzina, non è una cosa che si consuma. La motivazione è un traguardo. Raggiungerlo, o meno, dipende molto dall’insegnante».
Silenzio tombale nell’aula del Ctp. E Martini continuava:
«La vocazione del docente è quella del facilitatore, e il principio guida è uno solo: se io faccio o non faccio x, che cosa ci guadagnano i miei studenti? E’ evidente che chi fa selezione, e porta avanti i migliori, non sta facendo l’educatore».
«E quindi cos’è un buon insegnante?»
chiedeva, piccato, o forse spaesato, o forse tutte e due le cose, uno degli ospiti di quel mattino.
«Si è più bravi quanto più si aiuta l’incremento e maggiore è l’incremento. Ovvero quando si produce un cambiamento stabile e significativo».
Mannaggia a me: che mestiere mi ero scelta. Non solo passare la bellezza in un mondo che cominciava a sostenere che della bellezza non fregava niente a nessuno, ma perfino cambiare il mondo.

In tredici anni di scuola, università esclusa, ho avuto un’unica, grande, insegnante di italiano. Era severa, puntuale, vestita di nocciola e solida. Se ci penso oggi, anche impavida. Lei mi ha dato il metodo, la struttura, l’ordine. Quintalate di analisi logica e grammaticale e del periodo. Ma poi anche cose incredibili: liste di libri da leggere anche molto avanti per la nostra età, l’Inferno di Dante, i Promessi Sposi integrali, tutto Il buio oltre la siepe dalla prima all’ultima pagina in classe. Sui suoi appunti ho campato per anni. E quando, un giorno, mi sono persa il librino con tutte le parafrasi, mi sono messa a piangere come se avessi perso un braccio. Non era morbida, ma quando facevi bene te lo faceva capire, ed era un po’ come se avesse fatto bene anche lei. E’ stata una vera insegnante, come il mio professore di greco e latino del liceo – che, peraltro, era tutto il contrario: confusionario, appassionato, temperamentoso e, a tratti, sorprendente.
La maggior parte degli incontri scolastici, università inclusa, sono stati occupati invece da docenti, più e meno in parte.
L’italiano del liceo è stato un deserto: buono per decidere cosa non fare.
Io me li facevo, questi appunti mentali: se capita a te, mi dicevo, guai a mangiare in classe mentre spieghi (chi ha sentito Guittone D’Arezzo tra le briciole dei cracker può capire l’orrore…), guai a non essere preparata (ancora Martini, molti anni dopo: «Un buon facilitatore deve essere pronto a improvvisare, nel senso di cambiare strategia, ma non improvvisa nulla: la lezione va preparata dall’inizio alla fine»), guai a non calcolare come sei vestita, perché il rispetto comincia da una buona presentazione di sé, e arrivare arruffati, stropicciati o aulenti fa già capire qual è il buongiorno (gli studenti sono severissimi, in questo: noi conoscevamo tutto l’armadio dei nostri insegnanti; oggi, i miei studenti conoscono tutto il mio, di armadio).
All’università ho lavorato dal primo all’ultimo giorno: scrivevo per il quotidiano della città, lavoravo e studiavo, studiavo e lavoravo. Quella sensazione di fatica mi sarebbe tornata utile, nel momento in cui ho iniziato a insegnare nella scuola per gli adulti. E utili sono state anche le umiliazioni.
«Se vuole passare questo esame, lei non deve lavorare: non deve fare altro. Altrimenti, cambi mestiere»: così fu la bocciatura in Greco I. Il professore mi aveva vista all’opera, perché per un certo periodo lavoravo nel quotidiano a Venezia dal lunedì al giovedì, e a Belluno dal venerdì al lunedì: lui aveva una certa idea dello studente di lettere antiche; un’idea che non contemplava gli studenti lavoratori. Del resto, aveva avuto un degno maestro: quello che, nella nostra classe di Greco II, un giorno disse che l’università sarebbe stata cento volte meglio senza gli studenti. Guadagnai la porta con fatica, e con un certo istinto incendiario, che sedai a fatica.
Ma porca miseria – pensavo – tornando a casa e passando Santa Margherita, San Barnaba, Santo Stefano, Sant’Angelo, San Luca e tutta la processione sacra di campi e campielli, fino all’altra parte di Venezia – queste sarebbero le humanae litterae! Se la hanno chiamate così, ci sarà un motivo, no? Erano precisi, gli antichi: hanno messo prima humanae, e poi litterae. E se si toglie l’humanitas, quel che resta cos’è? Cosa si insegna? Litterae; anche l’elenco del telefono, o l’orario dei treni è fatto di litterae.
Per fortuna, oltre i grecisti di quello stampo, c’era altro.
Chi fu un maestro vero, al tempo dell’università, fu Alfonso Berardinelli, il mio insegnante di letteratura italiana contemporanea. Ci faceva leggere i poeti, molte volte di seguito: apriva porte, faceva volare le nostre menti, agganciava, associava, semplificava. Tutto sembrava incredibilmente facile.
E poi fece provare a noi: in quel tempo non usava molto far fare lezione agli studenti. Lui fece un seminario: scegliti un autore e raccontalo. Un’ora a disposizione.
La mia lezione su Federico García Lorca fu il mio battesimo dell’aria. E mi divertii. Ero terrorizzata, ma mi divertii.

Quando fu il mio turno a scegliere, in Provveditorato, dopo il concorso ordinario, decisi per la scuola degli adulti senza saperne molto.
«Se hai abbastanza spirito di adattamento e flessibilità – mi aveva detto Maria, che il Ctp lo aveva fondato e fatto crescere come una buona pianta, a Belluno – questo è il tuo posto».
Fu una buona decisione.
Ho lavorato al Ctp per dieci anni: fantastici, faticosi ed esaltanti. Giuseppe Martini era mancato da tre anni quando sono passata alle superiori; la sua scomparsa, improvvisa e dolorosa, segnò l’inizio di un cambiamento, per me. Alle superiori mi sono dedicata per tre anni alla scuola serale: ho avviato un corso completo e formato un nuovo indirizzo. Poi i meravigliosi meccanismi della scuola italiana mi hanno spedita al mattino: la responsabilità di ottanta persone riportate in formazione e io che devo dire ciao ciao. Sto ancora elaborando il lutto, ma intanto ne approfitto per pensare: la scuola in cui io credo, alla quale ho lavorato, che ho contribuito a costruire, è davvero possibile?
Quello che succede nella vita di una scuola di adulti è tanto. In tutti i sensi. E per tutti i sensi.
Sono tanti i problemi, le aspettative, le gioie, le conquiste, le scoperte, gli sconvolgimenti. Secondo me, un anno in una classe di adulti equivale a una mezza carriera di un insegnante del mattino.
Intanto per la tipologia di corsisti: giovani italiani pluri-disoccupati e giovani stranieri strappati nel tempo di un volo aereo dalla loro vita precedente. Signore italiane lontane dalla scuola da vent’anni e ragazze straniere laureate. Lavoratrici interinali sbattute di qua e di là di contratto in contratto. Turnisti che ci sono una settimana sì e una no. Gente che arriva: in settembre, in ottobre, in novembre, in dicembre, in gennaio, in febbraio.
Un flusso continuo, come il fiume di Eraclito: di persone, e di emozioni che queste persone si portano dietro.
A volte non si riesce a capire fino in fondo la portata di un evento, di una frase, di una espressione. Di una assenza.
A volte si capisce troppo.
Non è possibile considerare l’insegnamento come un lavoro che si conclude nell’arco delle ore in cui si sta in classe. Ma c’è bisogno di una attenzione vera nei confronti dei corsisti : il fallimento o la riuscita di uno studente dipendono anche dall’insegnante. E non poco.
Io credo in una scuola che faccia apprendere senza far sentire la fatica: dovrebbe essere questa la strategia principale del facilitatore. Saper emozionare. Saper divertire. Saper muovere e far muovere.
Io credo che esista un obbligo etico di coerenza nella scuola degli adulti, che sia fondamentale per la riuscita del percorso – qualunque percorso – il clima d’aula; credo che chi insegna debba fare i conti, ogni minuto del suo insegnamento, con la ineliminabilità delle incertezze, ma non per questo debba soccombere: costringersi alla flessibilità, esercitare la propria attenzione, saper percepire in anticipo sono cose che ti fanno capire che sei vivo; che non hai appeso al chiodo la tua veste didattica; credo che un insegnante debba avere scelto il suo ruolo, perché, senza scelta, la prima delle motivazioni traballanti sarà la sua: e come potrà convincere, motivare, trattenere, entusiasmare, se lui stesso non è convinto?
«Prof, imparare l’italiano è stato come nascere di nuovo»
mi ha detto, un giorno, un giovane Prem Kumar: in dieci parole, tutto Socrate. In dieci parole il senso gioioso del mio lavoro: la scuola cambia la vita. Cambia le persone, i loro orizzonti, il loro modo di vedersi nel mondo. Cambia le persone perché gli permette di scegliersi un destino, e di trasgredire da quello che gli si è attaccato addosso. Io l’ho visto. Lo vedo.
E, per questo, non riesco a non sperare ancora.

 

Pubblicato in Vibrisse da Giulio Mozzi

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