Posts Written By Michela Fregona

Maria Nieves: un abbraccio. Y nada mas.

«Io sono la più antica di tutte le ballerine di tango»
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Lucia scatta esattamente come un punto alla frase.
Che è perfetta: finale e drammatica, come un paradigma.

Maria Nieves, le gambe del tango, così come l’hanno chiamata per decenni, le gambe ce le ha ancora belle: la caviglia sottile, la linea affusolata, il gesto morbido e vitale. Accavalla e scavalla come se fossimo al Ritz – invece siamo su una panchina di plastica qualsiasi, e alle spalle abbiamo uno stanzone al Dorrego pieno di pezzi che non vanno uno con l’altro.

«Prima di me era l’epoca del canyengue: le donne erano sottomesse. Si appoggiavano. Rispettavano. Bah…»

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P di Pasqua. P di Pound. P di perché.

Il sabato di Pasqua, in piazza, c’è il sole.
E ci sono i poliziotti in tenuta antisommossa, e il cellulare parcheggiato dal lato opposto. E c’è pure la pattuglia.
Conto: sei, sette, otto mitra imbracciati – le facce serie. Poi altri tre, senza mitra, un poco più avanti.
Il sabato di Pasqua c’è il mercato, e tutti si muovono.
«E’ per farci sentire più sicuri»
dice, convinta, una commessa nel negozio di vestiti. Io penso: sicuri da che? Poi esco e faccio il giro largo.
A metà piazza lo vedo: il banchetto. Le tartarughe orizzontali che navigano sul fondo nero. E: le facce. Tutti maschi, tutti giovanotti, tutti senza sorriso, tutti rasati, tutti vestiti di nero.
Porca merda.

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Falta EL mejor, quella volta con Felix Picherna.

Possiamo anche chiamarla coincidenza. Destino.

Forse, non è che una di quelle silenziose fatalità che si rincorrono nella vita di una persona, sino ad accompagnarla proprio là dove qualcosa la chiama.

Ne è consapevole, Felix Picherna, quando ricorda il suo passato di strillone di giornale: Buenos Aires, 1943. A otto anni, il monello che “pensava solo al pallone” percorreva le vie dei quartieri centrali vendendo i suoi giornali a una clientela che ancora non sapeva tanto speciale: davanti ai suoi occhi, ad aprire gli augusti borsellini erano distinti signori che si chiamavano Juan D’Arienzo, Annibal Troilo, Marino e Fiorentino.

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prima della milonga.

Alle 10 del mattino la casa è già piena di musica. Alberto scorre l’archivio: di venti secondi in venti secondi, i violini e i pianoforti, i silenzi, le pause, i ritardi, i tempi percussivi e le variazioni occupano tutto lo spazio tra la sala e lo studio.
Di Sarli. D’Arienzo. Pugliese. Gobbi. Piazzolla. Fresedo. Troilo. Grela. Varela.
I nomi si confondono ai titoli: abbiamo ospiti che fanno stringere gli occhi. Indietro.
Di quanti tanghi. Di quante notti. Di quanta strada.

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Cose che fanno pensare

“Poiché voi sapete tanto bene quanto noi che, nei ragionamenti umani, si tiene conto della giustizia quando la necessità incombe con pari forze su ambo le parti; in caso diverso i più forti esercitano il proprio potere e i più deboli si adattano”. Tucidide, Discorso dei Meli e degli Ateniesi

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ed ora tocca a voi…

ed ora tocca a voi, ragazzi. Il momento é arrivato, per me, di lasciarvi andare.
Domani mattina vi vedró in fila di nuovo: sedervi, stirare i fogli, leggere i titoli, guardare per aria, piegarvi dentro ai vostri pensieri, inseguendo le parole (che verranno, ne sono sicura: e saranno giuste, semplicemente, per ciascuno di voi). Non abbiate paura: ce la farete.
Saró seduta davanti a voi, ma mentalmente saró al fianco di ognuno di voi: e avró davanti ventiquattro giovani eroi cretesi pronti a saltare il toro. Un rito é un rito, lo sapete bene: e questo é il vostro passaggio.

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la formazione dell’insegnante di lettere

Si chiamava Giuseppe Martini, e a usare il tempo passato faccio fatica, perché c’è ancora una parte di me che non vuole credere che sia successo quello che, poi, è successo.
La prima volta, era il 2002: rosso, di capelli e di faccia, gli occhiali montatura di metallo. Ho un ricordo di sole, fuori dalle finestre grandi della scuola: come sempre, in settembre. Noi, tutti, nell’aula. Mattina, pomeriggio; e poi, ancora, mattina, e pomeriggio. Venti solide ore.
E fuori il sole, a scaldare che faceva venire le malinconie da autunno in montagna – ecco, avevo pensato appena varcata la porta che, di lì a una decina di giorni, avrei infilato quotidianamente fino al luglio successivo, questo è un giorno da scappare in laguna, le ombre già si allungano e tu sei qui; altro che corso di formazione. La vergogna del pensiero era stata subito pari al senso di ribellione: mai stata brava a fare Lucignolo…
A un certo punto della lezione, lui si toglieva il maglione: arrotolava le maniche della camicia, spingeva gli occhiali indietro sul naso, con la nocca dell’indice, e, intanto, si stropicciava la bocca e il mento con la sinistra. Me lo ricordo così: fermo, in quella concentrazione.
Eravamo: impegnativi. In realtà, esistono pochi uditori più impegnativi di una classe di insegnanti.
E noi eravamo la periferia della periferia dell’insegnamento: eravamo il Ctp, Centro Territoriale Permanente per la formazione e l’educazione in età adulta. Una cosa nata, ministerialmente, cinque anni prima, sulla scorta di cinquant’anni di scuola e corsi per lavoratori. Il carcere di giorno, di sera l’aula multiplex: multilingua, multietà, multietnia, multiscolarizzazione, multimotivazione; multi-tutto.
Com’è che ero finita lì?
Lo avevo scelto. Ovvio.

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